Dall’opera all’environment alla città di luce |
Scritto da Ilaria Bignotti | |
A distanza di un secolo, il rapporto con la città notturna coinvolge artisti ed architetti appartenenti a diversi indirizzi di ricerca ed ambiti d'espressione. La luce, o meglio, la relazione fra luce e oscurità, fra buio ed illuminazione, in particolar modo nel contesto urbano, diventa elemento suggestivo e suggestionante per la ricerca artistica contemporanea. Parlare di questo "rapporto", in un contesto di studi incentrato sul rapporto fra luce e città – sulla fenomenologia del paesaggio illuminato – significa allora verificare se, e quanto, le stesse ricerche artistiche di luce abbiano inciso nei confronti della definizione e della progettazione di un'estetica della città illuminata, intendendo per città la metropoli contemporanea occidentale. Quindi una sorta di viaggio attraverso le forme, le funzioni e soprattutto le trasformazioni che la luce e l'arte hanno attraversato nel Novecento: si potrebbe chiedere, d'altra parte, perché partire da questo secolo, o meglio dai suoi primi decenni e non, per esempio, dalla fine del XIX, quando l'illuminazione notturna a gas si diffonde e suggestiona l'espressione artistica del tempo, in particolar modo pittorica. Perché è stato attraverso le cosiddette avanguardie storiche, futurismo, costruttivismo, espressionismo – le prime due caratterizzate da un atteggiamento positivo e sperimentale nei confronti della scienza e della tecnica; la corrente espressionista per l'uso e il significato attribuiti all'uso del vetro, della luce e del colore nell'arte e nell'architettura, elementi destinati alla creazione di un Gesamtkunstwerk che fosse monito di pace, bellezza e spiritualità per l'umanità del Novecento – che la ricerca artistica ha saputo avviare un'indagine ed instaurare un rapporto sempre più stretto e intenso sia nei confronti del pubblico dell'arte, chiamato a prendere coscienza dell'opera – e quindi di se stesso, del suo rapporto nei confronti dell'opera e dell'artista; sia nei riguardi dello spazio e del tempo, attraverso la realizzazione di opere ed oggetti artistici finalizzati ad occupare e successivamente a modificare la percezione e la caratterizzazione del luogo in cui erano collocati ma anche del tempo della visione e della reazione da parte del pubblico stesso. Al contempo lo spazio dell'opera, ovvero l'ambiente, è destinato ad essere sempre più coinvolto in un processo di trasformazione e connotazione, fino a diventare esso stesso opera d'arte, o meglio environment, a partire dalle ricerche spazialiste e situazioniste. Uno spazio artistico costruito artificialmente, che si estende e mira ad essere un mondo in sé conchiuso, un luogo sperimentale dove lo spettatore deve essere co-autore e consapevole fruitore delle sue caratteristiche stimolanti. Environment quale città "in vitro" del futuro, dove la luce artificiale contribuisce a creare stimoli e a sollecitare scelte consapevoli o spontanee, istintuali, da parte del pubblico di utenti. Progetti di environment, o "ipotesi di spazio" urbano, destinati a restare sulla carta fino a quando, a partire dagli anni Ottanta, con l'uso di LED, laser art, l'affinamento ed il potenziamento dei mezzi e delle tecnologie anche digitali, sono diventati installazioni urbane momentanee o permanenti, come si vedrà in seguito, destinate anch'esse a ri-connotare la metropoli contemporanea e a coinvolgere (stupire/ orientare – stimolare/scioccare/educare – attrarre/respingere....) il pubblico. Dunque l'indagine ha voluto focalizzare la propria direzione di analisi laddove tali ricerche artistiche mostrassero questi requisiti, sperimentassero la loro incidenza e relazione nei confronti di – o in vista di – una loro applicazione successiva sul più ampio contesto urbano. Pur se destinate a restare sulla carta o a livello di maquette e prototipo, sono state le ricerche dalla fine degli anni Cinquanta e lungo gli anni Sessanta e Settanta, in particolar modo, ad aver fornito agli architetti ed agli urbanisti stimoli, soluzioni e risposte alla crisi progettuale coincidente con la fine dei Ciam nel 1959 e con i dibattiti sulla metropoli destinati ad infittirsi e a dipanarsi nel corso dei due decenni successivi1. Come si cercherà di mettere in luce e di sviluppare nel corso del testo, infatti, le ricerche artistiche degli anni Sessanta e Settanta si dimostrarono sismografi sensibilissimi della società del tempo, dei cambiamenti sociali e comportamentali dell’individuo e della comunità degli utenti urbani, eleggendo proprio questi cambiamenti quali ambiti privilegiati di indagine. Un’indagine che ha poi saputo svilupparsi lungo due principali direzioni creative: da un lato quella della rappresentazione, in particolar modo pensiamo al caso della pop art, americana, europea, italiana, nelle sue diverse ramificazioni e problematiche, in rapporto alla visualizzazione ed alla narrazione del paesaggio urbano (basti pensare al peso iconografico di Las Vegas degli anni Sessanta, oggetto dell’analisi di Venturi, oltre che modello estetico dell'opera pop insieme alle altre grandi metropoli, da Londra alla New York di Warhol e di Koolhas). D’altra parte la direzione dell’azione-intervento, consistente nel richiamare l’arte nel mondo, superando l’individualismo informale ed i romitaggi espressionisti del secondo dopoguerra, in vista di una progettazione capace di cambiare – o provare a cambiare – e di rispondere ai bisogni del fruitore e della società: è il caso, come verrà svolto più avanti, delle correnti dell’arte programmata e cinetica, e prima ancora delle ricerche spazialiste e situazioniste. Non si è potuto comunque prescindere dalle ricerche artistiche degli anni Venti e Trenta, destinate a portare alla definizione dei principi e delle opere di arte cinetica, in particolar modo attraverso il lavoro pionieristico di Gabo, Pevsner, Nagy e Kemeny, autori dei primi oggetti e modulatori di luce destinati a intervenire nello spazio e a suscitare reazioni nel pubblico. Un esempio fra tutti, il Lichtrequisit di Nagy, presentato all'Esposizione Internazionale della Costruzione di Parigi nel 1930: una macchina a superfici riflettenti, in costante dinamismo, mossa da un motore e munita da un centinaio di lampadine elettriche di diverso colore, collegate e controllate mediante una bobina che crea un complesso spettacolo luminoso2. Se è vero che a partire dagli anni Cinquanta si diffonde il lumino-cinetismo, è anche vero che in questo periodo la ricerca artistica lavora in direzione di opere destinate ad ampliare il loro intervento nell'ambiente, ad indagare le relazioni con il fruitore, a verificarne risposte e reazioni – complici gli studi sulla Gestaltpsychologie portati avanti da Bauhaus e Scuola di Ulm, da un lato, ma anche l'approfondimento delle conoscenze tecnico-scientifiche, destinate a diventare medium non solo tecnologico ma sempre più anche formale della creazione artistica. Diverse le tipologie e le possibili classificazioni di oggetti ed opere creati con l'uso della luce artificiale. Una possibile catalogazione, quale è stata quella seguita nel corso di questa indagine, ha voluto provare a raggruppare le opere create nell'arco di un quindicennio, dalla metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, in base alla loro progressiva estensione verso lo spazio e al loro maggiore coinvolgimento del fruitore: oggetti ed opere con effetti luminosi di polarizzazione3; oggetti luminosi con effetti di trasparenze, vibrazioni, giochi riflettenti e caleidoscopici, modulatori di luce; oggetti per proiezioni luminose che modificano lo spazio interno valendosi di sorgenti di luce; quadri luminosi con effetti di intercezione, trasmissione, riflessione della luce destinati ad essere studi per successivi environment4; strutture e monumenti luminosi da inserire in un ambiente5; oggetti ed opere che indagano e interagiscono con la luce naturale attraverso forme, materiali, disposizioni nello spazio6. Dall'opera-struttura che interagisce con lo spettatore attraverso la luce e modifica lo spazio, la ricerca si è progressivamente indirizzata verso l'analisi di environments dove è ancora e soprattutto l'uso della luce artificiale a svolgere una centrale funzione progettuale e semantica. Ambienti creati dall'artista ancora a partire dai primi anni Cinquanta, o meglio dagli ultimi passi del decennio precedente, con Lucio Fontana: è a questo punto, ritenuto nevralgico ai fini dell’intera ricerca sulle relazioni fra progetto architettonico e urbanistico della luce nel paesaggio urbano ed espressione artistica con la luce, che l'indagine si è "sdoppiata" nella catalogazione e nella classificazione delle diverse esperienze in base alle loro specifiche caratteristiche. È emerso innanzitutto un gruppo di ambienti connotati dall'uso della luce artificiale: ambienti con luce fluorescente e neon (in particolar modo la ricerca ha inteso approfondire l'opera di Lucio Fontana, del gruppo T e del gruppo N)7. Un secondo gruppo è formato da ambienti con proiezioni di luce artificiale – flash, stroboscopica, pulsante – appositamente installata e/o proveniente da oggetti e strutture interne all'ambiente8; un terzo gruppo è invece formato da ambienti connotati dall'uso della luce naturale, assorbita, riflessa, modulata dai materiali, dallo spazio, dal fruitore che interagisce9. D'altra parte sono state evidenziate ed indagate una serie di "questioni" costanti e scottanti legate all'uso della luce quale elemento progettuale ed estetico: il rapporto tra l’artista, l’opera ed il fruitore e la centralità assunta dal fruitore; la relazione fra libertà/condizionamento del fruitore e dell'artista che si traduce nelle antitesi: progetto/non progetto; regola/gioco; consapevolezza/choc; programmazione/casualità; razionale/irrazionale; arte/scienza e rapporto fra manualità/tecnologia; naturale/artificiale. Sono state anche queste direzioni d’indagine emerse durante la ricerca che hanno determinato la scelta di selezionare e approfondire soprattutto alcuni movimenti e correnti della ricerca artistica sulla e con la luce – gli anni Sessanta e Settanta e le ricerche attuali – portando in secondo piano, senza tuttavia escludere, quelle espressioni artistiche dove il problema dell’analisi dei bisogni del fruitore, in quanto cittadino, del suo coinvolgimento e della sua relazione con l’opera d’arte non fosse centrale: quindi le correnti minimal e delle strutture primarie, le ricerche sul linguaggio e quindi sulla luce come materia di scrittura, l'Arte povera, la Pop Art e l'arte concettuale; tali correnti e movimenti sono stati invece analizzati e ripresi nei loro sviluppi attuali soprattutto formali, esteriori, in rapporto alle installazioni urbane. Anche in questo caso, costante è stato l’emergere del problema di individuare e distinguere fra le ricerche artistiche che della luce fanno un elemento rappresentativo, descrittivo, iconografico della città e le ricerche artistiche che vogliono usare la luce come azione, intervento, interazione con il tessuto metropolitano, preferendo quindi concentrarsi su queste ultime proprio per l’approfondimento del ruolo dell’arte nei confronti del progetto architettonico e urbanistico.
Perché questa necessità, perché l'artista ad un certo punto decide e prima ancora necessita di lavorare nello spazio, nell'ambiente, agendo su se stesso, innanzitutto, poi sull'interiorità – e la responsabilità – dell'altro, dello spettatore nei confronti di se stesso, della comunità e dell'ambiente in cui vive? Una possibile risposta, che è anche un punto di partenza dell’analisi, è da ricercarsi nella contestazione avviatasi fra la fine degli anni Quaranta e alla soglia degli anni Cinquanta nei confronti del Funzionalismo: fra le critiche rivolte, centrale è l'accusa di aver svolto un'indagine statica e semplificata nei confronti delle reali richieste dell'individuo-cittadino, inadeguata ad affrontare gli aspetti materiali dell'esistenza umana; il vocabolario funzionalista, fedele al mito "igiene+estetismo", aveva infatti rinunciato in partenza ad indagare le possibilità morfologiche e simboliche di uno spazio complesso e multidimensionale. Prese di posizione che, se in prima istanza portarono alle poetiche dell'Action Painting e dell'Informale, dove l'artista si ritaglia e connota uno spazio individuale nel quale agire ed esprimersi, avrebbero successivamente determinato l'apertura di questo “antro caverna guscio” dove agire i rituali dell'esperienza individuale – creativa e sensoriale – dal privato al "pubblico", dal creatore al fruitore. Ambienti e spazi chiusi all'interno dei quali accogliere l'opera e provocare lo spettatore erano già stati utilizzati per gli interventi delle avanguardie dada, futurista e surrealista – ma non dimentichiamoci anche le prime esperienze rivolte "all'esterno", come i loisir dada-surrealisti, vagabondaggi in una città ricomposta e scomposta dai procedimenti creativi e dalle ricerche sull'inconscio e sull'automatismo psichico; queste esperienze poi passarono attraverso l'Internazionale Situazionista che le avrebbe rielaborate e sistematizzate nei principi dell'Urbanistica Unitaria e della New Babylon di Constant, come il testo analizza in seguito. Tuttavia, solo a partire dagli anni Cinquanta si assiste ad un voluto coinvolgimento del fruitore, all'analisi delle sue relazioni con lo spazio e con l'ambiente. La luce gioca in questo senso un ruolo fondamentale e contribuisce alla realizzazione dell'environment che spesso presenta un uso cospicuo di elementi tecnologici: “…Il cemento armato (il mezzo) rivoluziona gli stili e la statica dell’architettura moderna. Allo stile decorativo subentrano ritmi e volumi. Alla statica, la libertà di costruire di costruire indipendentemente dalle leggi di gravità…A questa nuova architettura un’arte basata su tecniche e mezzi nuovi; arte spaziale, per ora, neon, luce di Wood, televisione, la quarta dimensione ideale dell’architettura. Permettetemi di fare delle fantasie sulle città del futuro: sole, luce, la conquista degli spazi o l’atomica, suggeriscono all’uomo di proteggersi… Si va formando una nuova estetica, forme luminose attraverso gli spazi…”10 Lucio Fontana, Ambiente spaziale a luce nera, 1948, Milano, Galleria del Naviglio: “Entravi trovandoti completamente isolato con te stesso, ogni spettatore reagiva con un suo stato d’animo del momento, precisamente, non influenzavi l’uomo con oggetti o forme imposte lì come merce in vendita, l’uomo era con se stesso, colla sua coscienza, colla sua ignoranza, colla sua materia…”11 A conferma dell'importanza della ricerca di Fontana a livello urbanistico ed architettonico sono inoltre da citare due progetti, poche volte ricordati dalla critica, destinati a restare sulla carta: il primo, presentato nel 1960 in occasione della XII Triennale di Milano, consiste in una rimodellazione spaziale della torre in tubolari di acciaio eretta da Gio Ponti nel 1933 alle spalle del Palazzo di Muzio, a Milano, di cui resta il modello: si trattava di un fascio di cavi appesi alla sommità della torre e che giungono a terra, resi auto-illuminanti da fili di neon e intercettati da grandi superfici triangolari. L'anno precedente, nel corso di un’intervista, Fontana annunciava un viaggio per un incarico a Tokyo: "...per decorare un grattacielo…Avvolgerò il grattacielo di Tokio in spirali di luce, innalzerò pareti di alluminio con fori e squarci dai quali la luce uscirà in zampilli multicolori…”.12
La luce nelle sue possibili applicazioni – neon, luce di Wood, luce naturale convogliata attraverso l'architettura – diviene, nel corso degli anni Cinquanta, elemento importante nel superamento di uno spazio ambientale rigido, a tre dimensioni13. In questo senso emergono le esperienze e gli studi sulla deambulazione e sul movimento del fruitore nello spazio dell'Urbanistica Unitaria, elaborati da Wolman e Constant e sperimentati nella città attraverso le ricerche dell'Internazionale Situazionista. Centrale la formulazione del concetto di situazione, antitetico rispetto a quello di opera intesa come prodotto artistico concluso e finito, bensì costruzione concreta di ambienti momentanei, improntati al culto dell’effimero e del libero sfogo di energie immaginative e creative. Un concetto che avrebbe subito un ampliamento, venendo a significare una partecipazione attiva al gioco ed alla festa enunciata poco più tardi da Debord nel saggio "La società dello spettacolo"14: meta ultima era infatti la trasformazione della figura dello spettatore fruitore in attore e protagonista non solo della esperienza strettamente estetica ed artistica, ma anche della concezione e della organizzazione della propria vita. La situazione intesa in tal senso prevedeva infatti due modalità principali di intervento: l’una da condursi nei confronti dell’ambiente materiale esterno, nel campo cioè degli oggetti, della architettura, della urbanistica, delle strutture socio-politiche ed economiche, l’altra all’interno del comportamento psico-fisico individuale e collettivo. Tale teoria faceva scaturire e si perfezionava sui principi del détournement, una sorta di effetto di straniamento e di spaesamento che la nuova opera d’arte avrebbe dovuto provocare nel fruitore; e della dérive, esperienza comportamentale basata sull’esperienza del viaggio e della passeggiata accidentale, priva di meta, in grado di fare riscoprire il piacere dell’avventura, del rischio, dell’estasi e della sorpresa. Se le teorie dell'Urbanistica Unitaria ribadivano la necessità di un intervento globale e capillare sull'ambiente urbano ai fini della sua riappropriazione comunitaria e della sua rianimazione estetica, esemplare e pionieristica è la Caverna dell'Antimateria (1958-59) di Pinot Gallizio. Destinata a “visualizzare” tali teorie attraverso un ambiente-guscio antifisico e molecolare, è un antimondo atomico dove giocano, al suo interno, anche quegli elementi della macchina e della tecnologia – componenti elettroniche e musicali – che i situazionisti non volevano eliminare, ma trasformare ai fini di una rinnovata relazione, creativa e positiva, con l’uomo e con l’arte. “…Nella mia caverna basterà uno specchio, pieno, concavo o convesso per creare un labirinto a nostro piacere; un gioco di luce creerà nuove immagini fantastiche. La luce sarà ultravioletta, normale, infrarossa calda, alta-bassa, riflessa su superficie metallica esterna, portata infine dagli spettatori a mo’ di torcia…”.15 Dunque la luce artificiale quale riflessione sulla dilatazione dell'opera in environment in direzione fisico-sensoriale ed in vista di un intervento urbanistico unitario, laddove l'uso della tecnologia non è negato, ma finalizzato alla risposta dei bisogni e degli stimoli dell'utente. Ricerche destinate poi a confluire, fra gli anni Sessanta e Settanta, nella Land Art, rivolta all'analisi del rapporto fra individuo-ambiente e in particolare, in questa sede, attenta alle relazioni fra aree di margine, industriali, di transito, natura ed intervento-azione dell’uomo. Un altro caso interessante che vede coinvolti artisti appartenenti a diversi linguaggi e percorsi di ricerca, è stato Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana svoltasi a Como il 21 settembre 1969: a ciascun artista invitato era stato chiesto di suggerire, attraverso installazioni ed interventi nella città, ipotesi comportamentali alternative ai tradizionali movimenti e percorsi imposti al cittadino dalle strutture urbane e architettoniche permanenti16. Ricerche destinate poi a confluire nel nostro secolo nelle esperienze del laboratorio urbano Stalker, proiettate verso aree di margine, vuoti urbani, territori abbandonati e/o in via di trasformazione17.
Accanto alle sperimentazioni sulla luce artificiale, la luce naturale torna ad essere utilizzata nel corso degli anni Cinquanta come strumento per la creazione e la modellazione dei luoghi del sacro (civili e religiosi), partendo da una riflessione sugli archetipi e sui rituali quotidiani collettivi e privati. La luce diviene cioè segno e forma di un ambiente ripensato quale nucleo vitale dell’individuo, ambiente come "grotta ventre caverna", luogo dell’origine e della trasformazione di impulsi vitali e libertà espressive. In quest’ottica, e per le interazioni che anche questo filone di ricerche, parallele e complementari a quelle intanto perseguite da Fontana da un lato e dai Situazionisti dall'altro, hanno giocato sia in vista del superamento del Funzionalismo che dello stimolo e dell'anticipazione delle future sperimentazioni degli anni Sessanta, è da ricordare il ruolo di Frederick Kiesler. Teorico di un’architettura magica che ha radici nella totalità dell’esistenza umana, stabilì a partire dalle critiche al Razionalismo la necessaria elaborazione di una teoria dell’architettura capace di introdurre la complessità materiale e linguistica del mondo, sviluppando la sua indagine in tre direzioni: una filosofia dell’ambiente nuova, chiamata Correalismo; una teoria dell’arte e dell’architettura focalizzata sul processo, anziché sull’oggetto, chiamata endless, infinita; una ricerca sulla forma aperta, sulla poetica della galaxy. Il tema ed il ruolo della luce sono centrali in Kiesler fin dai suoi primi anni viennesi (1923-25): è qui che, sviluppando da un lato le ricerche sul teatro, dall’altro le critiche al Funzionalismo – due fasi che in realtà s’intrecciano e influenzano – si avvicina e si confronta con quelle ricerche espressioniste che proprio della luce hanno fatto un elemento ricorrente. In particolare, Kiesler ha in comune con i padri della Glasarchitecture quell'elemento irrazionale che si traduce nel tempo nelle sue teorie endless e galaxy. É nelle ricerche teatrali che Kiesler getta anche i semi della successiva formulazione del Correalismo, dove lo spazio dinamico (teatrale) diviene spazio continuo e fluente (einsteiniano) della materia-energia, uno spazio di interazione fra uomo e mondo in cui l’economia e la tecnica hanno un ruolo primario: quindi la luce, le sue applicazioni, le sue innovazioni giocano un ruolo importante fra gli elementi della progettazione architettonica e della filosofia kiesleriana. Se il principio endless degli anni Venti, legato all’infinito limpido e smaterializzato, si traduce nell’infinito materiale della multidimensionalità e del rapporto interno-esterno, materia-non materia, pieno e vuoto degli anni Quaranta e Cinquanta, la luce resta elemento importante di questo passaggio, traducendosi nell'illuminazione connotante ed eclettica dei progetti di case e teatri degli anni Sessanta. Progetti, dunque, come momenti di approfondimento del legame e dello scambio fra individuo-collettività: laddove la casa diventa microcosmo aperto e interagente con il macrocosmo, il privato si fonde nel pubblico e la luce naturale e artificiale, convogliata e modificata dall'architettura endless, rappresenta questa felice fusione in nome di una libertà dell'abitare che significa vivere sulla crosta terrestre18. Se quello di Kiesler è un caso prevalentemente architettonico nell'ambito di uno studio dedicato alle ricerche artistiche contemporanee con la luce, è necessario tuttavia per verificare la progressiva importanza del fruitore in direzione di un'estensione dell'opera nella dimensione dapprima dell'environment poi della città, ma anche per introdurre quelle ricerche, portate avanti da artisti isolati, destinate ad indagare e utilizzare prevalentemente la luce naturale, anch'esse da considerare in vista della loro estensione urbana: da quelle modulari di Enzo Mari che verificano il ruolo della luce quale elemento progettuale rispetto alla scelta dei materiali con i quali creare moduli assemblabili in griglie e tracciati tesi alla città; a quelle di Francesco Lo Savio che analizza invece l'applicazione dei principi di spazio-luce all'area urbana, da organizzare in sistemi modulari atti alla progettazione di case e città analoghi alla struttura corporea dell'uomo, con le sue qualità simmetriche ed organiche; a quelle degli oggettuali milanesi19, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Paolo Scheggi, destinate al superamento progressivo del quadro oggetto in direzione di ambienti monocromi tesi a riflettere sul rapporto superficie-spazio-profondità e giocati sulla discontinuità e modularità di superfici rientranti, estroflesse, fustellate dove la luce naturale viene assorbita, riflessa e modulata in modi differenti e con particolare attenzione alle risposte del fruitore. Anche il caso di Getulio Alviani è stato approfondito per lo studio e le applicazioni delle Superfici a testura vibratile in ambienti appositamente costruiti per la verifica di un preciso teorema: specularità + riflessione + fonte luminosa + angolazione visiva + movimento = vibratività (dell’oggetto) + comportamento = interrelazione + percezione = situazione. La situazione, ovvero il punto di arrivo, è duplice: è “in situazione” l’opera; è “in situazione” lo spettatore. Una situazione dinamica, in grado di unire il massimo ordine con la massima libertà, salvando all’interno dell’operazione scientifica e programmata un margine per il caso, l'alea: una ricerca che tendeva ai tracciati urbanistici, alla modulazione di edifici, in un’unica parola, al mondo della vita20. Fra progettazione e spettacolarizzazione della luce e del movimento tradotte in ambito urbano proseguono ed approdano agli anni Sessanta le ricerche sul lumino-cinetismo di Nicholas Schöffer, destinate ad elevare l'elemento scultoreo in scala architettonica, creando monumenti di luce miranti a suscitare choc e meraviglia nell'utente cittadino: nel 1957, alla stazione di New York, effettua il primo spettacolo luminodinamico sonoro con l'oggetto Lux I, una scultura mobile che produce ombre colorate raccolte su uno schermo; segue la Torre cibernetica di Liegi, una torre spazio-dinamica, cibernetica e sonora, di 52 metri di altezza, formata da 37 assi girevoli a velocità differenti, 64 lastre a specchio e pale di forma diversa di alluminio lucido che riflettono i raggi luminosi e li diffondono creando varietà di combinazioni. Durante la notte, proiettori luminosi multicolore intensificano tale animazione e un fascio verticale di grande portata prolunga la torre nel cielo. Forse un'anticipazione di quelle architetture-segnale della ricerca contemporanea, accanto alla quale, nel 1961, crea lo spettacolo Forme e Luci al Palazzo dei Congressi di Liegi: sui 1500 metri quadrati della facciata di vetro del Palazzo vengono abbassate tende di materia plastica per formare uno schermo gigante su cui appaiono forme colorate in movimento. Oltre alle illuminazioni fisse del palazzo, era prevista l’illuminazione della città con due proiettori collocati sui tetti. Nello stesso anno in cui è stata creata la Torre di Schöffer, estremo approdo del lumino-cinetismo, si fonda il Gruppo Equipo 57, teso ad analizzare e sperimentare il concetto di interactivité de l'espace: il primo dei gruppi di arte programmata21 sui quali si è concentrata l'indagine. Partite anch'esse da un generale ripensamento, recupero e rigetto dei principi delle Avanguardie Storiche, in particolar modo Futurismo, Bauhaus e Costruttivismo, rivisitate attraverso le ricerche del Movimento di Arte Concreta di Munari, Dorfles, Monnet e Soldati e le teorie gestaltiche di Ulm, le ricerche di arte programmata hanno accolto la luce artificiale fra le principali componenti di una attenta analisi a più livelli. Fra questi, sono stati evidenziati il rapporto fra artista e spettatore, individuo e collettività: il pubblico viene sempre più chiamato a determinare il formarsi e il divenire dell'opera-ambiente che attraverso l'uso sapiente della luce e del cinetismo genera a sua volta fenomeni percettivi e motori "liberamente guidati". Movimento, spostamento, reazione del fruitore che l'artista analizza e sollecita possono diventare risposte e verifiche successive nel più ampio contesto sociale e urbano. In vista di questa funzione, l'artista sceglie l'anonimato individuale e opera in un gruppo di ricerca, sia per evitare il condizionamento del pubblico e la sua sensazione di insubordinazione rispetto all'opera d'arte, che per favorire la responsabilità dell'utente verso se stesso quindi gli altri e la società; stimolato attraverso la percezione, lo choc, spinto a prendere una posizione o a scegliere una risposta, il fruitore diventa co-autore dell'opera-environment e viene chiamato ad agire direttamente sulle sue componenti, a modificarne l'aspetto in base alle proprie esigenze ed alle proprie necessità. Il rapporto fra progettazione e casualità: “…Avremo così una singolare dialettica tra caso e programma, tra programma e azzardo, tra concezione pianificata e libera accettazione di quel che avverrà, comunque avvenga, dato che in fondo avverrà produttivo secondo precise linee formative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le pongono degli argini e delle direzioni possibili…”22 Attraverso i termini “opera aperta” e “arte programmata” la critica del tempo sottolineava la relazione fra caso e programma, progetto e libertà presente nelle ricerche cinetiche e visuali. Destinati a diventare opera aperta sono, soprattutto, gli environment: costruiti artificialmente, diventano campi di possibilità interpretative, configurazioni di stimoli, luoghi dell’indeterminatezza e dell’ambiguità. Cosa prevale? Il gioco o la regola? Il programma o la casualità? La legge o la libertà? E quanto incide il ruolo del fruitore rispetto a quello dell’artista? Il confronto fra un significato razionale ed uno irrazionale della luce nell'environment: ovvero, fra un significato ed un utilizzo tecnici, funzionali della luce, elemento ordinatore e organizzatore degli spazi, della percezione e dei movimenti; ed un uso mistico-magico della luce, simbolo di infinito, spiritualità, elemento alchemico e suggestivo, metafisico. La funzione della luce fra scienza ed arte: l'uso della luce artificiale nell'ambiente costruito dall'artista e l'impiego di mezzi tecnologici implicano una discussione sulla relazione fra l'artista stesso con la scienza e con la tecnica: un rapporto destinato a proseguire da Fontana fino ad oggi con le forme di arte digitale, net art e generalmente con l'uso di new media. In particolar modo, nelle ricerche di arte programmata l'uso della luce artificiale intreccia e si basa su teorie scientifico-filosofiche: la filosofia dinamica del vitalismo; il rapporto fra movimento e tempo; la cibernetica e l’elettronica; la teoria dell’informazione; il richiamo alla natura per la meditazione e ri-creazione di fenomeni naturali associati alla luce, all’aria, alle leggi di gravità; la suggestione verso i movimenti biologici; l’esame sociologico del fare artistico in relazione al rapporto opera-fruitore; le applicazioni della teoria gestaltica e i contributi della psicologia della percezione. L’uso della moderna tecnologia diviene sempre più medium formale, oltrechè tecnico; l’artista si identifica nel tecnico-ingegnere e/o a queste figure specialistiche chiede la collaborazione per la realizzazione di environment ed oggetti. Il problema centrale non è, allora, nella valutazione del risultato estetico e formale (spesso tali progetti sono destinati a restare sulla carta, o appunto ad essere verificati solo in forma di environment e maquette tecnomorfe) ma nella verifica di quanto tali teorie scientifiche e tecniche fossero effettivamente conosciute e comprese e quanto “strumentalizzate” e solamente “citate” dall'artista stesso23. Una crescente attenzione verso la tecnologia, dunque, che avrebbe sempre più determinato l'irrealizzabilità di tali progetti visionari, utopistici, puramente sperimentali, architetture esistenti solo sulla carta, o nella migliore delle ipotesi rimaste nella forma embrionale dell'environment: come poi sarebbe accaduto per le contro-architetture radicali che dell'uso della luce artificiale hanno fatto una componente fondamentale per l'analisi e lo stimolo dei rapporti dell'utente con una città destinata a suscitare sempre più dibattiti e confronti (ricordiamo in quegli anni il problema scottante dei centri storici, il ruolo della città-regione, i compiti della città-territorio). La luce artificiale, associata all'utilizzo massiccio dei nuovi materiali, dalle plastiche ai poliuretani ai mezzi tecnologici, è elemento frequente di choc e coinvolgimento nelle megastrutture visionarie, dalle Plug-in-city alla Superarchitettura, nei progetti di piper urbani ottenuti mediante l'assemblaggio di pezzi eterogenei, nelle utopie tecnomorfe, da Archigram ad Archizoom, nei Monumenti continui e rilucenti del Superstudio, nei Pianeti come festival, veri Luna Park della contestazione di Sottsass, fino agli interventi diretti in città del gruppo U.F.O. Esemplare e pionieristico è in questo contesto il Corso Universitario "Spazio di Coinvolgimento", tenutosi alla Facoltà di Architettura di Firenze nell'anno accademico 1966-196724. Quando, cioè, si iniziavano ad allestire le prime mostre dedicate quasi interamente al tema dell'environment, da Eindhoven a Foligno25, quando sull'onda dell'emergere della pop art le ricerche programmate andavano perdendo terreno o meglio "appeal" nel sistema della critica e del mercato, quando si avviavano le prime contestazioni universitarie dedicate anche al problema della città e dei suoi obblighi ed imposizioni nei confronti dell'utente. “(…) il Corso aveva come scopo principale la progettazione di un locale per la ricreazione e lo spettacolo del tutto particolare: un Piper cioè, da ubicarsi alle Cascine di Firenze. Ma il progetto di questo ambiente era più che altro un pretesto – risultato del resto assai efficace – per una ricerca “alle spalle” più ampia che permettesse a sua volta di affrontare i problemi che evidentemente furono subito connessi con numerosi altri, quali l’uso di nuovi materiali, di nuovi mezzi di percezione e comunicazione, di nuove metodologie di progettazione...”26 Sfociato in una mostra ed in una pubblicazione ancora poco conosciuti, il Corso "Spazio di Coinvolgimento", fra i cui studenti e assistenti si annoverano diversi fautori della contro-architettura, parte da una riconsiderazione dei periodi di maggiore interazione fra l'architettura e le arti visive: Arts and Crafts, Werkbund, Futurismo, giudicati come momenti in cui la ricerca artistica aveva cercato di creare, guarda caso, oggetti che potessero modificare tutto l'ambiente; ed alla Bauhaus, che aveva individuato un metodo per applicare un concetto di architettura a tutti i campi di intervento, integrandoli. Dall'environment alla città, dunque, o meglio alla progettazione di città transeunti, smontabili, gonfiabili, assemblabili, ogni volta connotabili in modo diverso, a seconda del libero sentire dell'utente e delle necessità urbanistiche: “Struttura spaziale, colorata, luminosa, e a libera crescita. Il fattore macchinistico (richiami alle avanguardie russe e allo strutturalismo di Tatlin) è continuamente contestato dall’aspetto di grande libero gioco aperto a tutti). Una continua diversità di scale e dimensioni rende l’organismo fruibile a più livelli.” 27 Ruolo centrale è consegnato al fruitore, che può vivere l'environment come immagine allusiva, evocativa, pre-testuale, disponendo di una vasta gamma di possibilità di azioni ed interazioni da svolgere all'interno dell'ambiente, potendo infine modificarlo: un ambiente inteso come generatore spaziale di esperienze.28 Basati sulla poetica del non finito e dell'opera aperta, memori delle esperienze da Enzo Mari al gruppo MID, i progetti di "Spazio di Coinvolgimento", suddivisi in tre grandi categorie – progetti nei quali prevaleva la componente interpretativa della logica macchinista e tecnologica; progetti ottenuti mediante il metodo dell’assemblaggio di pezzi eterogenei come frammenti di strutture urbane; progetti dalle forme fortemente intenzionate ironiche o eversive, in grado di proporsi come modelli di comportamento – toccano e riflettono tutti i rapporti, gli usi e i significati attribuiti alla luce nella ricerca artistica ed architettonica e mirano, sebbene a livello di ipotesi progettuale, alla verifica in ambito urbano: il risultato? “Un gigantesco non-finito nel quale fosse leggibile una varia predisposizione alla fruizione, un monumento alla luce e ai gesti scomposti, un frammento di città o pezzo di natura artificiale o ancora un cantiere per il tempo libero di tutti...”29
Con l'affermazione della Public Art, "l'arte lanciata in una pubblica arena"30l'infittirsi degli happening e delle performance urbane di Fluxus, l'approfondirsi del concetto di site-specific dell'opera, dalla fine degli anni Sessanta l'arte contemporanea si estende sempre più nello spazio urbano, partendo dai centri storici per arrivare alla riqualificazione e riconnotazione delle aree di margine, delle periferie e delle zone di transito.31 L'indagine ha cercato di verificare quali direzioni abbia preso la ricerca artistica attuale della luce, cercando di verificare le principali direzioni di intervento e le finalità preposte dagli artisti e dalle amministrazioni urbane stesse.
L'incremento sempre più diffuso delle tecnologie digitali nella società contemporanea, la rapida trasformazione delle strutture sociali, lo scontro-incontro fra confini, assimilazioni e differenze socio-culturali, la perdita e/o le alterazioni e i cambiamenti delle strutture geo-politiche, urbane, territoriali, il problema ambientale sono sempre più frequentemente "narrati" – affrontati, superati, visualizzati, analizzati, rimossi anche – dall'artista contemporaneo proprio attraverso l'uso o la negazione della luce artificiale (laddove negarla e denunciarne la sparizione e/o il rifiuto diventa riconoscimento della sua importanza e centralità). Sull'onda di questa tendenza, sono anche da collocare le recenti esposizioni dedicate al tema della ricerca artistica luminosa: ora impostate sull'analisi delle caratteristiche della luce in relazione ai concetti fondanti della creazione artistica ed architettonica;32 ora sulla luce quale strumento di intervento attuale con e sui materiali e gli spazi dell'arte, del design e dell'architettura;33 sulle ricerche storico-artistiche della luce nell'arte:34 diverse metodologie d'indagine, dunque, spesso ancora legate ad un atteggiamento ricognitivo, catalogatorio e descrittivo dove l'analisi dell'elemento tecnologico è preponderante. Più strettamente rivolta all'indagine sulla luce in relazione allo spazio urbano è la ricerca portata avanti, in Europa, dal N.A.I. di Rotterdam.35 Diversamente, la proliferazione dei vari "festival urbani delle luci", da quello pionieristico di Lione alle varie manifestazioni "Luci d'artista" e "Notti Bianche", costituiti da interventi temporanei (nella maggior parte dei casi) e permanenti (o semi-permanenti) di re-design luminoso dell'ambiente urbano centrale e periferico, ripropongono insistentemente il problema della reale efficacia dell'intervento luminoso-artistico e spesso evidenziano "il pericolo" di una labile operazione di restyling d'impatto, atta a soddisfare la crescente richiesta di "indigestioni emozionali e spettacolari". Frequentemente si assiste infatti ad operazioni condotte separatamente e "a tempo determinato" rispetto alla pianificazione dell'illuminazione urbana, finalizzate dunque ad un uso spettacolare della luce artificiale e superficialmente coinvolgente, complice l'assenza di progetto unitario ed il potenziale offerto dalla cultura digitale e dalle tecnologie sofisticate, atte a favorire simulazioni e scenografie virtuali: dagli interventi di "Luci d'artista", appunto, ai casi "isolati" in contesti a se stanti o in occasione di "eventi" culturali paralleli e limitrofi all'arte contemporanea.36 Non s'intende con questo criticare l'intervento individuale dell'artista o del gruppo di artisti chiamati a lavorare sullo spazio e sull'architettura urbani, ma è necessario rivolgersi la domanda sulla risposta reale da parte del pubblico e sull'incidenza effettiva di tali operazioni estetiche nei confronti dell'ambiente e della società. Altrove, la ricerca artistica luminosa mira, più che ad intervenire sull'ambiente urbano con l'intervento della luce artificiale, ad analizzarne la situazione già esistente, ponendosi dunque essa stessa come indagine e successivamente come azione destinata a chiamare in causa, provocare, fare interagire e riflettere il pubblico. Si tratta, ancora una volta, di chiarire dove la ricerca artistica della e con la luce si ponga come rappresentazione del tessuto urbano, dei suoi legami e dei suoi problemi, e quali artisti invece intendano agire, intervenire, dunque modificare la situazione urbanistico-architettonica e con quali finalità. Non si vuole con questo semplificare un problema ben più ampio, ma provare a riflettere e a riconoscere il ruolo centrale avuto da alcune ricerche artistiche degli anni Sessanta e Settanta – soprattutto quelle radicali – ed il loro frequente riproporsi, attraverso alcuni snodi centrali che ho precedentemente evidenziato, anche nel panorama attuale: il rapporto fra spazio privato e spazio urbano, confine-limite e apertura-fusione, regionalismo-globalizzazione, interno-esterno, flusso-stasi, azione-interazione, tecnologia-digitale-recupero della manualità e dell'artigianato, ambiente ed ecologia. Impossibile provare a trarre bilanci e conclusioni oggi, laddove l’intervento e la presenza dell’artista nel pubblico, dalla piazza all’aeroporto, è fattibile ed anzi richiesto dalle amministrazioni stesse e quindi sempre più avvenimento di “routine” anche per il fruitore abituato alla presenza dell’arte nei luoghi della vita e del quotidiano, abituato allora anche a “meravigliarsi” e “stupirsi” di fronte alle spesso innocue presenze artistiche nel panorama urbano. È forse anche in questa “evoluzione” del rapporto fra arte e città e luce che si spiega l’incremento di ricerche artistiche finalizzate a riscoprire il valore del buio e dell’oscurità quali nuovi elementi non solo, o meglio non tanto rivolti a scioccare il fruitore, quanto ad analizzare il suo rapporto con la luce e l’ambiente in nome di una riscoperta e rieducazione della percezione e dei sensi: temi portati avanti, per esempio, da Olafur Eliasson, mentre Rafael Lozano Hemmer pare più rivolto al tema urbano ed alla sua relazione con l'utente cittadino; per un altro verso ancora Carlo Bernardini si concentra su una ricerca che intervenga sulla percezione dello spazio nel fruitore attraverso l'uso di mezzi tecnologici e digitali; infine, ma la lista potrebbe continuare e prolungarsi in casistiche differenti, Stefano Cagol è da anni concentrato sulla indagine attorno ai temi dell'appartenenza culturale e politica e dei confini socio-geografici. Sono, questi, temi sempre più approfonditi anche dalla critica, in particolar modo da curatori e manifestazioni internazionali, fra cui ricordo la recente "Manifesta 7" con i relativi progetti curatoriali di Office for Cognitive Urbanisme e Adam Budak a Rovereto, Raqs Media Collective a Bolzano, Anselm Franke e Hila Peleg a Trento37 e la mostra “Sguardo periferico e corpo collettivo” che ha inaugurato il nuovo Museion di Bolzano, curata da Letizia Ragaglia ed Eva Fabbris. Si tratta, anche in questi casi, di verificare la reale portata e incidenza di queste ricerche dove spesso l'uso della luce artificiale diventa simbolo e visualizzazione di un concetto, di un rapporto, di una crisi, di un conflitto, di una mutazione e di un cambiamento sociale e culturale, politico, geografico e territoriale, destinato dunque a riflettersi in campo urbanistico e quindi pubblico ma anche, sempre, ad incidere sul sentire e sull'esistere individuale e personale. Infine tematiche ambientali quali il global warming, l'inquinamento luminoso, lo spreco energetico hanno suscitato anche alcune ricerche artistiche della luce destinate a riflettere specificamente su queste tematiche (è il caso del recente “Ambient Festival”, tenutosi a Brescia nell’aprile 2008).
Dall'opera all'environment alla città, il problema urbano resta campo aperto per la ricerca artistica della luce, destinato a stimolare domande e verifiche sulla effettiva incidenza e possibilità d'intervento dell'arte nella vita e nella collettività.
(Tratto da F. Zanella, Città e luce. Rappresentazione e progetto, in Città e luce. Fenomenologia del paesaggio illuminato, pubblicato in occasione della mostra, Reggio Emilia, 18 ottobre – 8 novembre 2008, Festival dell’Architettura, 4, Parma, Festival dell’Architettura Edizioni 2008, pp. 27-40).
1 Vedasi in particolare l’ampio saggio di Francesca Zanella in catalogo. 2 Le ricerche di arte cinetica degli anni Venti hanno toccato tutti gli ambiti di espressione, dal teatro – Hirschfeld-Mack e Schwerdtfeger – al cinema e fotografia – Léger, Len Lye, Man Ray, Moholy Nagy, Richter, Ruttmann; numerosi infine gli artisti che si sono interessati alla progettazione e realizzazione di strumenti e oggetti per luce mobile e dinamica: Hausmann, A.B. Klein, László, Pesánek, Théremin, Wilfred. Fra le catalogazioni e gli studi più completi e pionieristici dell'arte cinetica, è ancora F. Popper, Naissance de l’art cinétique. L’image du mouvement dans les arts plastiques depuis 1860, Paris, Gauthier-Villars 1967, prima trad. italiana L’arte cinetica, Torino, Einaudi 1970. 3 Per esempio le opere di: Bruno Munari, Polariscopio, 1954-55; gruppo T-Davide Boriani, PH scope n. 8, 1964-1966; Gruppo MID, Generatori cinetici lampeggiatori 1, 2, 3, 1967. 4 Ricordo: Gruppo ZERO-Otto Piene, Lichtballet, 1959, e Proiettore splendente (Einscheibenprojector), 1962; gruppo N- Alberto Biasi, Proiezione di luce e ombra, 1961. 5 Fra queste opere segnalo: gruppo T-Giovanni Anceschi, Percorsi fluidi orizzontali, 1962; Gruppo N-Manfredo Massironi, Cubo luminoso e struttura dinamica, 1961; gruppo ZERO-Günter Uecker, Tempio di luce (Lichttempel), 1966; gruppo ZERO-Heinz Mack, Foresta di colonne (Stelenwald), 1962. 6 Come meglio specificherò nel prosieguo della ricerca, sono in particolar modo le ricerche di Francesco Lo Savio, di Enzo Mari e di Getulio Alviani a caratterizzarsi per uno studio del rapporto fra luce-materiali specchianti o assorbenti – spettatore e a verificare l'estensione di tali ricerche nella città. 7 Del Gruppo T e del Gruppo N è impossibile elencare qui tutti gli ambienti, rimando all'intervento di Biasi per il Gruppo N e di Varisco per il Gruppo T in catalogo. 8 In particolar modo ricordo le ricerche dei gruppi programmati, fra le quali segnalo quelle del gruppo T: l'After Structure di Gianni Colombo, del 1966 e l'Ambiente stroboscopico multidirezionale a programmazione aperta di Davide Boriani e Giovanni Anceschi composto da proiettori di luci stroboscopiche a sei colori e frequenza variabile. 9 Mi riferisco sia alle ricerche degli oggettuali milanesi, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Paolo Scheggi, creatori di ambienti monocromi, e di Getulio Alviani, per le ricerche ambientali con i materiali metallici e specchianti. 10 Così scriveva Lucio Fontana nel 1951, in occasione del suo intervento per la IX Triennale di Milano, in collaborazione con l'architetto Luciano Baldessari: lo scalone d'onore "invaso" da un groviglio di luce al neon che scorre in un tubo di cristallo del diametro di 18 millimetri, lungo 100 metri e il soffitto del vestibolo d'ingresso illuminato a luce indiretta e neon. L. Fontana, "Manifesto tecnico", Milano 1951, letto in occasione del I Congresso Internazionale delle Proporzioni alla IX Triennale di Milano del 1951; il testo è stato consultato in "Lucio Fontana", a cura di E. Crispolti e R. Siligato, catalogo della mostra, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 3 aprile-22 giugno 1998, Milano, Electa 1998. 11 L. Fontana, Lettera a Enrico Crispolti, 1961, pubblicata in E. Crispolti, "Omaggio a Fontana", Assisi-Roma 1971, p. 99. 12 Progetti pubblicati in Lucio Fontana, a cura di E. Crispolti e R. Siligato cit. 13 Vedasi il saggio di Francesca Zanella in catalogo, nello specifico il paragrafo: “Modelli urbani e rappresentazioni. 1. Dall’acropoli a Coney Island”. 14 G. Debord, "La société du spectacle", Paris 1957, prima traduzione italiana "La società dello spettacolo", Bari 1968. 15 Pinot Gallizio, "Diario-registro", Archivio Gallizio, Alba, in G. Bertolino, “La Caverna dell’Antimateria e il Tempio dei miscredenti, 1958-1959”, in "Pinot Gallizio. Catalogo generale delle opere 1953-1964", a cura di M. T. Roberto, Milano, Mazzotta, 2001, p. 130. 16 Per ulteriori approfondimenti rimando alla sezione dedicata a Grazia Varisco nel catalogo generale del Festival dell’architettura Pubblico Paesaggio, Parma 2008. Campo urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana, a cura di L. Caramel, U. Mulas, B. Munari, catalogo della mostra, Como Nani 1969. 17 www.stalkerlab.it; sulla metropoli postmoderna e sulle aree di margine quali elementi centrali della ricerca artistica contemporanea rimando al saggio in catalogo di Jacqueline Ceresoli che riflette anch’esso sul problema o meglio l’alternanza della rappresentazione e dell’intervento dell’arte nei confronti della città. 18 F. Kiesler, Manifesto of Correalism, in “Architecture d’Aujourd’hui”, giugno 1949, pp. 733.742, citato da M. Bottero, Perché Kiesler oggi, in Frederick Kiesler. Arte Architettura Ambiente, a cura di M. Bottero con L. Ridone, catalogo della mostra, 28 febbraio-10 aprile 1996, Milano, Galleria della Triennale, Milano 1996, p. 17. 19 La definizione di "oggettuali" è stata attribuita da Dorfles: G. Dorfles, La peinture d’objet dans l’art contemporain, in “L’Oeil”, 1965, n. 121, pp. 40-46; G. Dorfles, Pittura-oggetto, in “Marcatre”, 1966, n. 26-29, p. 411; Pittura-Oggetto a Milano, a cura di G. Celant e G. Dorfles, catalogo della mostra, Roma 1966. 20 M. Fagiolo Dell’Arco, L’Iperluce di Alviani, in M. Fagiolo Dell’Arco, Rapporto ’60, Roma, Librarte 1966, pp. 241-245. Una interessante antologica sull'artista è stata "Getulio Alviani", a cura di G. Di Pietrantonio, catalogo della mostra, GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, 22 ottobre 2004-27 febbraio 2005, Milano Skira 2004. 21 Impossibile fornire qui una cronistoria completa dei gruppi e degli artisti di arte programmata. Mi limiterò a dare alcune indicazioni generali. Oltre al Gruppo Equipo 57, agli inizi degli anni 60, si fonda a Parigi il Groupe de Recherche d’Art Visuel (G R A V) che porta avanti un metodo di lavoro collettivo attraverso indagini logiche sulle probabilità ottico-percettive e sul rapporto arte-società. Negli stessi anni sempre a Parigi operavano, nella Galleria Denis René, Vasarely, Agam, Bury, Soto, Tinguely, che con Duchamp, Calder, Jacobsen lavorano a tematiche destinate a penetrare nelle ricerche successive e dei gruppi, e strettamente legate al tema della luce e dell’ambiente: il movimento, reale e virtuale, l’impiego di nuovi materiali, un uso differenziato del colore in rapporto alla luce naturale ed allo spazio. Nel 1958 nasce a Düsseldorf il Gruppo Zero con Heinz Mack, Otto Piene e Günter Uecker: in loro, le ricerche sull’arte cinetica e visuale hanno stretti legami con teorie filosofiche e scientifiche, più che con esercizi sperimentali; per il legame da un lato con una metafisica della luce, dall’altro con contaminazioni dada, stretti i rapporti con Yves Klein in Francia, Piero Manzoni ed Enrico Castellani in Italia, per il tramite della città di Milano e della Galleria Azimut. Sempre a Milano, proseguivano i lavori del MAC (Movimento Arte Concreta, fondato nel 1948 da Dorfles, Soldati, Munari e Monnet), che in questa sede sono stati analizzati in vista dei legami con il concetto di arte totale – arte e ambiente – e con le ricerche sulla luce e sul rapporto fra arte e fruitore. In questo senso, la ricerca ha prestato particolare attenzione al lavoro di Bruno Munari, per i suoi esperimenti e per il suo ruolo di vivace animatore dei dibattiti, nonché per la sua attenzione ai gruppi. Sull’onda di queste ricerche nascono in Italia alcuni gruppi fondamentali ai fini di questa indagine: 1959: Gruppo N a Padova e Gruppo T a Milano; 1965: Gruppo MID a Milano; 1962: Gruppo Dvijzenije a Mosca 1962, animato da Lev Nusberg, e in contatto, più dell’americano, con critici e artisti europei, specialmente Frank Popper, Nicolas Schöffer, Julio Le Parc; in particolar modo il gruppo russo è stato analizzato per il suo stretto legame con il tema della luce, applicato, per via delle ricerche visuali, al teatro ed allo spettacolo, alla musica ed all’architettura, quindi importante prosecuzione delle ricerche delle avanguardie storiche, fra Costruttivismo e tensioni di ascendenza espressionista. Una considerazione a parte merita la situazione jugoslava, dove fra il 1961 e il 1965 si afferma un movimento che coincide anche con una serie di esposizioni itineranti in Europa: Nove Tendencije – Nouvelle Tendance – Nuove Tendenze, punto di riferimento per la formulazione del dibattito critico e per la storicizzazione dei gruppi e dei singoli artisti cinetici e visuali. Impossibile fornire qui una bibliografia anche minima sull'argomento. Rimando al primo volume che ha avviato una storiografia, I. Mussa, "Il gruppo ENNE. La situazione dei gruppi in Europa negli anni Sessanta", Roma, Bulzoni 1976. 22 U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, prima ed. 1962, ed. cons. Milano, Bompiani 1971. Il testo è stato pubblicato per la prima volta in occasione della mostra al Negozio Olivetti, a Milano: “Arte Programmata. Arte cinetica, opere moltiplicate, opera aperta", organizzata da Bruno Munari e Giorgio Soavi. Partecipano: Giovanni Anceschi (Percorsi fluidi orizzontali); Davide Boriani (Superficie magnetica); Gianni Colombo (Strutturazione fluida); Gabriele De Vecchi (e.r.m.n.t. 1961); Enzo Mari (Opera n. 649); Bruno Munari (Nove sfere in colonna); Gruppo N (Rilievo ottico-dinamico, Visione dinamica, Interferenza geometrica, Bispazio Instabile) e Grazia Varisco (Ox9xX). Ampliata con il G R A V e Alviani, la stessa mostra passa a Venezia e a Roma nello stesso anno. 23 La critica ha spesso posto l’accento su questa questione, a partire da Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, prima edizione Milano, Feltrinelli 1962, che pone il problema dalle poetiche spazialiste fino alle ricerche cinetiche degli anni sessanta, mettendo anche in campo la questione dei multipli e della produzione seriale-industriale dell’opera. Una recente dichiarazione di Davide Boriani del gruppo T, durante l’intervista rivoltagli da Lucia Meloni in catalogo “Il Gruppo T”, mostra a Roma, Palazzo Esposizioni, Silvana Editoriale 2006, pone candidamente in nuce il problema di questo delicato rapporto a p. 25: “…qualche concetto filosofico, brandelli di teorie scientifiche, alcune delle molte possibilità offerte dalla tecnologia…ne ho fatto un uso “improprio” estraendole dal loro specifico e collegandole tra loro per formulare ipotesi, tentare sintesi, progettare opere. Ad esempio, attraverso Bergson ho chiarito il rapporto spazio-tempo (dichiarazione Miriorama 1), dalla cibernetica di Wiener ho tratto criteri di programmazione del caso (ad esempio Grafiche programmate); dalla teoria dell’informazione (Moles) metodi non soggettivi di analisi del messaggio visivo (ad esempio, Ambiente per un test di estetica sperimentale); dalla teoria e dalla psicologia della percezione, (da Kohler a Kanisza a Hubel) criteri di analisi e articolazione dei processi visivi, che ho applicato a tutte le mie opere, dalla Superficie magnetica alla Dinamica Economica agli ambienti; dalla psicologia transazionale (Ames) elementi per la realizzazione di anamorfosi tridimensionali (Camere distorte); dagli studi sul pensiero artificiale (De Latil, Gray Water) stimoli alla progettazione di sistemi interattivi complessi…Ricerca scientifica e ricerca artistica perseguono con metodi diversi, obiettivi diversi. Ma avendo in comune il fine di indagare e mostrare aspetti della realtà da punti di vista nuovi, talvolta si intersecano e coincidono…”. 24 All'interno del corso universitario di Architettura degli Interni I, docente Leonardo Savioli, assistenti: Danilo Santi, Franco Bresciani, Lorenzino Cremonini, Paolo Deganello, Pierluigi Marcaccini, Riccardo Merlo, Adolfo Natalini, Mario Preti, Francesco Trivisonno; collaboratori: Maurizio Sacripanti, Dante Bini, Piero De Rossi, Francesco Capolei, Manlio Cavalli, Gruppo MID. Nel febbraio 1968 era stata allestita la mostra Ipotesi di spazio, esposizione dei progetti del corso Spazio di coinvolgimento organizzata dal Centro Proposte, in collaborazione con il Centro Gavina di Firenze, con relativo catalogo, a cura di Leonardo Savioli, edizioni Centro Proposte 1968 e riedizione aggiornata e arricchita Edizioni G&G 1972; sulla rivista “Casabella” 1968, n. 326, pp. 32-45, è pubblicato l’articolo Spazio di coinvolgimento, scritto da Natalini e Savioli che avevano firmato rispettivamente gli interventi Arti visive e spazio di coinvolgimento e Per un nuovo rapporto tra l’utente ed il suo spazio; l’articolo veniva completato dalla pubblicazione di alcuni dei progetti che già erano apparsi sul catalogo del 1968 edito dal Centro Proposte. Fra i contributi del catalogo sono stati analizzati: L. V. Masini, Ipotesi di spazio alternativo, pp. 4-5, scritto nel 1967; P.L. Marcaccini, Metodologie di progettazione, pp. 20-21; L. Cremonini, L’uso della luce in architettura, pp. 28-30. 25 Fra queste esposizioni ricordo: 1964 Parigi, Musée des Arts Décoratifs, Nouvelle Tendance; 1965, Zagabria, Galeria Suvremene Umjetnosti, Nove Tendencije 3; 1966, Eindhoven, Stedelijk Museum, “Kunst Licht Kunst”; 1967, Foligno, Palazzo Trinci, “Lo Spazio dell’Immagine”. 26 L. Savioli, Introduzione, in Ipotesi di spazio cit. p. 1. 27 Dal Progetto del Gruppo Cannito, Davalli, Di Pietro, Ferretti, pubblicato sul catalogo "Ipotesi di Spazio" 1968 e in "Casabella" n. 326, 1968. 28 A. Natalini, Arti visive e spazio di coinvolgimento in “Casabella” 1968, n. 326, p. 35. 29 Dai progetti del gruppo Albisinni e del gruppo Cannito, in P. L. Marcaccini, Della metodologia di progettazione, in Ipotesi di Spazio cit., pp. 19-20. 30 F. Matzner, Public art: Kunst im offentlichen Raum, ein Handbuch, Stuttgart, Hatie Cantz 2004. 31 Vedasi il saggio di Francesca Zanella in catalogo, in particolare “Modelli urbani e rappresentazioni. 2. La metropoli postmoderna”, e quello di Jacqueline Ceresoli. 32 É il caso di "Made of light", mostra a Londra, presso il Royal Institute of British Architects nel marzo 2004, dove l'uso della luce veniva analizzato in 11 sezioni distinte: Source, Contrast Surface, Colour, Mouvement, Function, Form, Space, Boundary, Scale, Image, Magic: “Made of Light. The Art of Light and Architecture”, a cura di M. Major, J.Speirs, A. Tischhauser, London, Royal Institute of British Architects, marzo 2004, Birkhäuser 2004. 33 Stadtlicht Lichtkunst : ein Projekt der Initiative Stadtbaukultur des Landes Nordrhein-Westfalen, a cura di C. Brockhaus, catalogo della mostra, Stiftung Wilhelm Lehmbruck Museum, Zentrum Internationaler Skulptur, Koln Wienand 2004: la mostra e il catalogo provano a raggruppare l'uso della luce in ambiti differenti, dall'opera d'arte al design all'architettura, attraverso 14 aree tematiche: Lichtdesign im Aussenraum (design di luce in spazi aperti); Naturlicht, Architektur und Skulptur (luce naturale in architettura e scultura); Licht, Leinwand und Papier (luce, tela e carta); Licht und Farbe, Plexi-, Spiegel- und Fiberglass (luce e colore, plexiglas, specchio, vetroresina); Objectkunst und Installation mit Lichtkunst (oggetto artistico e installazione con la luce); Skulptur und Installation mit Neonlicht (sculture e installazioni con luce al neon); Text und Zahl mit Neonlicht (parola e numero con luce al neon); Lichtfenster und Lichtkansten (finestre e scatole di luce); Permanente und temporäre Licht-Architecture (architetture di luce permanenti e temporanee); Permanente Lichtskulpture im Aussenraum (sculture luminose permanenti nello spazio esterno); Laser-Licht (luce laser); (Kinetische) Lichträume (ambienti di luce cinetica); Licht-Aktionen (performance e interventi luminosi); Licht-Projectionen (proiezioni luminose).
34 La mostra e il catalogo Licht Kunst aus Kunstlicht, a cura di P. Weibel, G. Jansen, catalogo della mostra, 19 novembre 2005-6 agosto 2006, Zentrum für Kunst und Medientechnologie Karlsruhe, Karlsruhe 2006 si presenta come excursus storico sul rapporto fra luce artificiale e ricerca artistica: Victory of the Sun; Light Images; Light Spaces; Light Kinetics; Arte Povera, Concept and Pop Art; Minimal Art, Primary Structures; Light Reflexions / Light and Shadow; Neorealism; Neofunctionalism: lamps; Playing with Natural Phenomena; Neoformalism and Neoconceptualism; Logo-culture and Light Graphics; Flash Lights. 35 Rimando all'intervento nel corso del seminario del 14 dicembre 2007 di Saskia van Stein ed alla mostra "Luminous Building: architecture of the night", Rotterdam 2006, divisa nelle sezioni di indagine: Applications (fireworks, outline lighting, floodlight, glassblocks, reflections, luminous adversiting, luminous bodies, kinetic light), Locations (lighthouse, exhibitions pavillions, light cathedrals, department stores, picture palaces, filling stations, light columns), Visions (luminous fountains, Crystals, City of light, dark vision, luminous street). 36 Ricordo a Milano, in occasione del Fuori Salone del Mobile 2008, le recenti "Dreams of a possible city" di Massimo Uberti, installazione luminosa mirante a creare una sorta di nuova "Sforzinda" di neon nel Chiostro della Magnolia, Fondazione delle Stelline ("...una città ideale e infinita...i neon bianchi sono scelti quali simboli luminosi della vitalità notturna e moderna delle nostre città...") a Flumensky del gruppo Humusstudio, "...da prodotto nato per segnalare i percorsi stradali a innovativo sistema che integra illuminazione e arredo urbano"; rimando inoltre a "Luci d'artista 2007" a Torino, con installazioni luminose che alternavano interventi di scrittura e narrazione nello spazio cittadino (opere di Joseph Kosuth, Qingyun Ma, Luigi Mainolfi, Mario Merz, Mario Molinari) ad operazioni di riconnotazione e re-design urbano (Mario Airò, Enrica Borghi, Daniel Buren, Nicola De Maria, Richi Ferrero, Jepp Hein, Rebecca Horn), alla nuova "Luci di Pietra" a Roma, 24 marzo-15 aprile 2007, con opere di artisti italiani e francesi, giovani, emergenti e già storicizzati, ora chiamate ad intervenire in aree monumentali e architetture storiche ( Palazzo Farnese, Villa Medici, Chiese di San Luigi dei Francesi e San Nicola dei Lorenesi): ricordo Michel Verjux, Cristian Boltansky, Jannis Kounellis, Claude Lévêque. 37 www.manifesta.org; www.manifesta7.it; vedasi il catalogo Manifesta 7. The european biennal of contemporary art, a cura di A. Budak con A. Franke e H. Peleg, varie sedi Trentino e Sud Tirolo, 19 luglio-2 novembre 2008, Bergamo, Silvana Editoriale 2008. |