Intervista a Marinella Patetta e a Claudio Valént |
Scritto da Romano Baratta | |
Due dei maggiori lighting designers italiani rispondono in parallelo alle nostre domande. Un'intervista doppia per conoscere il loro metodo di lavoro, i loro progetti e le loro idee sulla luce. Romano Baratta: Buongiorno signori, parlateci del vostro studio Metis. Marinella Patetta: Difficile sintetizzare in poche parole 18 anni di lavoro. Metis nasce dalla voglia giovanile di lavorare insieme dall’entusiasmo del condividere il progetto come esperienza. Nel tempo si è molto trasformata e strutturata, ma la sostanza è rimasta quella. Claudio Valént: Abbiamo fondato Metis Lighting nel 1991 dopo alcuni anni di lavoro con Piero Castiglioni. Attualmente il nostro studio è composta da dieci designer, inclusi noi, e due addetti alla segreteria - contabilità. Ospitiamo anche abbastanza regolarmente uno /due stagisti che arrivano un po’ da tutte le scuole europee. I nostri principali clienti sono gli architetti a cui forniamo un servizio di consulenza sull’illuminazione normalmente pagato dal cliente e secondariamente i costruttori di apparecchi di illuminazione con cui collaboriamo per il design. Non siete l'unico duo di lighting designers che lavorano assieme: Palladino-Ferrara, Iannone-Tellini, ecc. Com'è lavorare assieme? M.P.: Bello e complicato . Credo molto nel confronto e trovo che i lavoro sia qualcosa che è importante condividere. Io ho fatto questa scelta molto tempo i fa e tra alterne vicende non me ne sono mai pentita. C.V.: Lavorare in coppia è un sistema molto efficiente perché consente una rapido confronto che facilita le decisioni da prendere. Inoltre la complementarietà delle competenze e delle inclinazioni personali rende più interessante e ricco il prodotto finale che nel nostro caso è il progetto d’illuminazione. È forse anche un fatto generazionale dovuto alla complessità crescente della progettazione architettonica. L’architetto artista/artigiano credo sia una figura professionale in estinzione. Vi trovate sempre d'accordo? M.P.: Inizialmente quasi mai. Infatti parlavo di confronto e non di consenso. Capita spesso però che dopo avere approfondito un tema arriviamo alle medesime conclusioni. Be, allora vuol dire che quella è la strada giusta, per noi ovviamente. C.V.: Sulle scelte importanti e strategiche quasi sempre. Avete sempre avuto la passione per la luce o è stata una folgorazione? M.P.: Per me l’inizio è stato un caso come molte cose nella vita. Durante l’università sono entrata in contatto con persone che si occupavano di illuminazione in teatro, ho lavorato in teatro e nelle sfilate poi sono venuti i corsi di specializzazione, ho conosciuto Piero Castiglioni e ho lavorato con lui per 10 anni. Creare la Metis invece è stata una scelta. C.V.: Entrambi abbiamo frequentato nel 1985 il primo master italiano di progettazione illuminotecnica, allora la progettazione dell’illuminazione non si chiamava lighting design, promosso da Alberto Seassaro alla facoltà di Architettura di Milano. Cosa vi proponete quando progettate... intendo come fine del risultato? M.P.: Il miglior risultato per il progetto dello spazio all’interno del quale operiamo. C.V.: Il fine del nostro lavoro è la migliore sintesi possibile dei diversi elementi che si combinano all’interno del processo di lighting design nello spazio architettonico. Ovvero di quegli elementi intangibili della luce come la sua funzione emozionale, di benessere psicofisico delle persone, di valorizzazione del progetto architettonico, con gli elementi più concreti come la qualità materiale dell’impianto, la manutenzione, il risparmio energetico. Qual'è l'ambiente che vi piace illuminare maggiormente? M.P.: Gli spazi ben progettati siano essi architetture , interni o esterni. Se un progetto è bello ed interessante anche l’idea della luce nasce in modo più naturale. C.V.: Sono quegli ambienti dove qualità del design e qualità della luce sono assolutamente richiesti e necessari e devono essere necessariamente compresenti come gli showroom della moda, gli uffici di rappresentanza, le grandi dimore private, gli alberghi, i musei. Ma soprattutto dove esiste una committenza e un progettista realmente interessati e motivati. Quale invece il progetto di luce altrui che vi sarebbe piaciuto aver realizzato? M.P.: Se parliamo di apparecchi la Titania. (nda: apparecchio della Luce Plan). C.V.: Ci piacciono molto le idee degli artisti che lavorano con la luce, Flavin, Turrell, Eliasson, Mc Call, ma anche di quegli anonimi artisti o artigiani che hanno costruito il lampadario della Moschea Blu di Instambul o di grandi maestri come Le Courbusier quando disegna le finestre/forature della chiesa di Ronchamp. In Italia manca il riconoscimento professionale del lighting designers... M.P.: Purtroppo si. Negli ultimi 20 anni le cose sono cambiate e la sensibilità è cresciuta ma di fatto ancora non è così diffusa l’idea che il progetto di illuminazione sia fondamentale per la percezione di uno spazio. In Italia purtroppo è scarsa la cultura del progetto. Progettare non significa “buttare dei soldi “ significa fare meglio risparmiando tempo e denaro. E questo vale anche per l’illuminazione. Soprattutto in questo momento poi in cui veniamo bombardati da una propaganda un po’ approssimativa legata al risparmio energetico. Bisogna metterselo in testa. Il progetto è la prima forma di risparmio energetico. A nulla servono le sorgenti cosiddette a “risparmio di energia “ se si usano in apparecchi poco efficienti e se se ne utilizzano di più di quelli che servono o se si montano dove non serve. C.V.: Le ragioni sono diverse. La cultura della luce nel nostro paese è molto recente e tuttora poco diffusa. Fino a pochissimo tempo fa il progetto d’illuminazione era essenzialmente sviluppato dagli ingegneri elettrotecnici. Inoltre si è confuso e si confonde tuttora il design del prodotto lampada, in cui il nostro paese peraltro eccelle, con la qualità della luce. L’ultimo Euroluce ne è stata ancora una volta una prova. Bellissimi oggetti chiamati lampade con errori grossolani di scelta e di posizionamento delle sorgenti luminose. Il cosiddetto prodotto tecnico è in realtà un apparecchio che utilizza al meglio le sorgenti luminose. In questo tipo di prodotto purtroppo l’innovazione e il design in Italia sono un passo indietro. Spesso ricorrete alla progettazione di apparecchi Custom. Non trovate apparecchi in commercio o perché volete adattarli maggiormente alle installazioni? M.P.: Alle volte la richiesta di originalità è implicita nell’incarico che riceviamo . Spesso ad esempio quando veniamo chiamati a sviluppare un Lighting Concept il cliente in qualche modo si aspetta qualcosa di originale e per di più anche in esclusiva…..Altre volte invece il problema è che se hai una idea molto precisa de risultato che devi ottenere in termini di effetto luminoso e conseguentemente di sorgente di dimensioni ecc, be succede spesso che quello che ti serve non esiste. Per questo motivo alle volte disegniamo apparecchi Custom. C.V.: La progettazione degli apparecchi custom nasce in parte da quanto detto prima e in parte da necessità intrinseche del progetto architettonico. Quando si lavora come dicevamo più sopra con progettisti e committenti motivati, in ambienti unici è molto difficile utilizzare prodotti di serie. Del resto i grandi architetti dopo l’introduzione della luce elettrica si sono dedicati al disegno di apparecchi d’illuminazione per il loro progetti architettonici: Machintosh, Loos, Le Courbusier, Asplund, e così fino ad oggi. Ciò che noi facciamo adesso è supportare le esigenze estetiche dell’architetto di una struttura tecnica e illuminotecnica attuale e utile al progetto della luce. Avete realizzato illuminazioni all'estero? M.P.: Più della metà del nostro lavoro si svolge all’estero. C.V.: La maggior parte del nostro lavoro si svolge all’estero. Stati Uniti, Francia, Germania, Svizzera, Lettonia, Azerbaijan, Spagna, Inghilterra, Algeria, Qatar, Russia. Questi sono i paesi dove abbiamo lavorato e dove lavoriamo.
Ricordo il vostro intervento urbano in concomitanza con Euroluce 2005, per l'evento “ A cielo aperto”; un portico dove sul fondo si vedeva in silhouette, su fondo rosso una donna sdraiata con la lampada Arco di Castiglioni... M.P.: L’esperienza di Cielo Aperto è stata molto interessante . Affrontare con un gruppo di persone con formazioni completamente diverse il tema della luce sulla città è stato molto stimolante . E il risultato di grande soddisfazione proprio perché le persone che frequentavano quel quartiere hanno riscoperto un luogo che non avevamo praticamente mai notato , e questo proprio grazie alla qualità della illuminazione, all’idea di una luce realizzata con elementi che richiamassero l’interno domestico. Lo spazio era stato trasformato e reso piacevole. C.V.: Quella lodevole iniziativa voleva essere un interessante tentativo per la valorizzazione per mezzo del progetto d’illuminazione di spazi urbani ordinari, non monumentali come tipicamente sono gli spazi di collegamento, piccoli larghi, spazi di risulta, piccole corti. In qualche modo ricorda il workshop organizzato da PLDA ad Alingsäs in Svezia. Ma a differenza di questo ultimo evento che richiama da dieci anni decine di migliaia di visitatori ogni anno purtroppo quello non ha avuto un seguito. Oggi si preferisce affidarsi all’archistar. Presso il vostro studio passano vari giovani progettisti. Ne ricordate uno in particolare? Chi pensate possa essere un progettista a cui affidarsi nel prossimo futuro? M.P.: Non uno in particolare. Con tutte le persone con cui abbiamo collaborato , a parte pochissimi casi, si è creata un ottimo rapporto per cui li ricordiamo tutti molto piacevolmente .Purtroppo il vero problema sarà il futuro; la formazione su questo fronte specifico in Italia e veramente scarsa . Inoltre se non cresce la coscienza che il Lighting Designer è una professione non so quanti resisteranno. C.V.: Sempre più frequentemente incontriamo nostri ex studenti nelle aziende di apparecchi d’illuminazione o che lavorano in proprio come industrial designer ma nessuno, che io sappia, che abbia aperto un suo studio di lighting design. Mi sembra un fatto abbastanza sintomatico di quanto sia difficile iniziare questo lavoro in Italia. Siete preparati in piani della luce. Volete parlarci di quello di Bergamo? M.P.: Per la verità il Piano di Bergamo ( 1995) in qualche modo è preistoria. Nonostante sia datato però mi rendo conto di come fosse stato ben strutturato e lungimirante. In quel momento eravamo in una situazione praticamente di deserto sull’argomento per cui credo che a suo tempo siamo stati piuttosto bravi, anzi penso che sia servito da ispirazione a molti “redattori “ successivi. Be, la cosa divertente è che praticamente dopo Bergamo non siamo riusciti a fare più neanche un Piano di Illuminazione. E’ stato un po’ come nei fumetti , il protagonista apre la porta ..e poi tutti gli passano sopra e la porta si richiude senza che lui sia entrato. C.V.: Noi abbiamo realizzato il primo piano d’illuminazione comunale inserito all’interno di un piano regolatore urbanistico e quindi con la cogenza di uno strumento legislativo. Dal 1994 ad oggi non ne abbiamo realizzati altri vuoi perché non ci promuoviamo in questo senso, vuoi perché le aziende multiutility si sono impadronite di questa idea e in totale conflitto di interesse occupano tutto lo spazio dei progettisti. L’aneddoto è che un vero piano d’illuminazione, che non sia semplicemente la scelta tra sodio a.p. e ioduri o nel prossimo futuro tra LED cool e LED warm, evidentemente non interessa. Il lavoro che ricordate volentieri... M.P.: Tanti. Certamente il momento in cui abbiamo acceso il primo “ apparecchio “ che abbiamo progettato, realizzato e montato con le nostre mani ; è stato un avvenimento che ricordo sempre volentieri . Quando la luce si è accesa ed era esattamente come l’avevamo immaginata è stata una grande emozione. Dopo quello è successo molte altre volte, ma la prima volta non si scorda mai… C.V.: Il lavoro che si ricorda volentieri è sempre quello riuscito meglio, quello di cui resta un buon risultato progettuale e la soddisfazione e l’apprezzamento di tutti i partecipanti a quel lavoro a cominciare ovviamente dal cliente ma anche dell’impiantista e degli elettricisti con cui si è lavorato per finire con l’architetto, il reale committente del nostro lavoro, la cui soddisfazione è per noi estremamente importante. Se dovreste illuminare un bunker come interverreste? M.P.: Cercherei un modo di portarci un raggio di sole . C.V.: Dipende dalla funzione di quello spazio e quindi dalla vita dei suoi occupanti e dai compiti visivi che vi devono essere svolti. Ad ogni modo nessuna illuminazione per noi è esclusivamente funzionale o esclusivamente emozionale. Il giusto mix dipende appunto dalle funzioni. Cosa vi piacerebbe illuminare prima della “pensione”? M.P.: Un aeroporto, ma forse ci siamo vicini… Soprattutto mi piacerebbe che tutte le esperienze e il lavoro di progetto che abbiamo sviluppato in questi anni e che svilupperemo nei prossimi non andassero completamente perse. Magari fare un libro. Credo che a qualche futuro lighting designer potrebbe anche interessare. In fondo è un patrimonio di ingegno anche. C.V.: Non crediamo di avere un tipologia di spazio preferita. Avere buone idee e riuscire a portarle fino in fondo concretizzandole esattamente come si ha in mente è la cosa più importante. Applicate all’illuminazione di un ristorante o di un museo, di un albergo o di un negozio è comunque gratificante. Un saluto ai lettori di Lighting Now! M.P.: Nonostante tutte le difficoltà progettare è entusiasmante . Bisogna osare sempre perché ogni progetto è una occasione per sperimentare per cui …. Buon Lavoro ! C.V.: Ciao. |
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