Intervista a Carlo Bernardini |
Scritto da Romano Baratta | |
Carlo Bernardini è tra i principali artisti italiani che utilizzano la luce nelle loro opere. Nato a Viterbo nel 1966 ha esposto in molte gallerie italiane e straniere, in spazi pubblici e privati. Si e` diplomato nel 1987 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1997 ha pubblicato il saggio teorico sulla “Divisione dell’unità visiva” edito da Stampa Alternativa. È stato invitato a due Quadriennali di Roma e ad una Triennale di Milano. Ha realizzato grandi installazioni ambientali esterne in fibre ottiche, e sculture pubbliche permanenti in acciaio inox e fibre ottiche in diverse città italiane. Ha vinto per due volte nel 2000 e nel 2005 il premio "Overseas Grantee" dalla Pollock Krasner Foundation di New York, e nel 2002 il premio Targetti Art Light Collection “White Sculpture”. Attualmente è insegnante all’Accademia di Belle Arti di “Brera” a Milano. Vive e lavora a Milano. Romano-Baratta: Buongiorno Carlo, si racconti... Carlo Bernardini: Sono arrivato alla fibra ottica nel ‘96 riproponendo, girato al contrario, un precedente lavoro dei primi anni ’90 che era fatto di nero su bianco. Erano linee d’ombra astratte, oppure disegni nello spazio in acciaio inox. Poi, intorno al ’94, ho elaborato un concetto di Divisione dell’Unità Visiva creando due differenti autonomie visive in una stessa opera: una alla luce reale e un’altra al buio. Erano superfici bianche che, in assenza di luce reale, diventavano una sorta di negativo fotografico di se stesse. Alla materia pittorica bianca, stratificata in tante velature, é sottoposta una stesura di fosforo che, al buio, rimanda la luce assorbita al chiaro. Si verifica un ballugginio astratto della materia pittorica; le linee di luce si trasformano in linee d’ombra e viceversa. Dopo il ‘96 ho trovato nella fibra ottica sia un mezzo nuovo e non inflazionato da altri artisti, sia un mezzo ideale per evidenziare lo spazio come un disegno mentale, un disegno che sfrutta al posto di una superficie il buio come un foglio scuro sul quale strutturasi in negativo. La luce è... Immateriale. Ha una formazione diretta nel mondo della luce o semplicemente passione e professionalità l’hanno portata ad essere tra i maggiori esperti di fibre ottiche? La seconda ipotesi. L’arte visiva si fonda sulla sperimentazione di un linguaggio finalizzato alla sua stessa evoluzione, ed i mezzi espressivi si usano in funzione di ciò che si intende esprimere, e quindi del linguaggio stesso. Segue il mondo della luce aldilà del suo interesse artistico? Sì, mi interessano anche le innovazioni dei grandi light designer o i nuovi materiali ad essa connessi; poi nell’utilizzo di questi va comunque evitato di farsi prendere la mano e perdere quella secchezza o sintesi espressiva che è l’elemento che fa la differenza. Tra gli artisti che utilizzano la luce chi preferisce o segue con particolare attenzione? Due grandi artisti che hanno dissolto il confine tra l’opera e lo spazio che la contiene, creando una fusione completa tra l’opera e il contenitore, trasformado in “opera” lo spazio stesso: James Turrel e Olafur Eliasson. Le sue opere sono esclusivamente formate da fibre ottiche a emissione laterale. Cosa la cattura di questo mezzo di luce. Ho scelto di lavorare principalmente con le fibre ottiche scegliendole quale mezzo ideale in funzione di una precisa idea di trasformazione dello spazio, in quanto consentono di disegnare lo spazio su grandi dimensioni con estrema libertà e con qualsiasi spessore, a partire da un millimetro a finire con un centimetro e mezzo. Installazioni come riflessione sullo spazio percepibile... L’installazione in fibra ottica è un disegno nello spazio che va a trasformare lo spazio stesso e le coordinate percettive dell’osservatore. Si inserisce anche nelle sculture in acciaio e, nella stessa maniera, interagisce con esse. Il mio tentativo è quello di creare opere da intendersi come organismi visivi, in cui avvengono sovrapposizioni percettive simultanee, statiche e dinamiche. La sua è una evidente interazione con l’ambiente che dovrà ospitare l’installazione. Sono quasi tutti lavori sit-specific. Come si approccia allo spazio in fase progettuale? A differenza di altri artisti non è tanto l’installazione a trasformarsi in funzione dello spazio, quanto è l’istallazione a trasformare lo spazio che la contiene. In realtà il mio modo di lavorare, che apparentemente può sembrare rigorosamente programmato, lascia molta più libertà di quel che si crede a una sorta di espressionismo libero dello spazio. Questa non è improvvisazione, ma un modo per salvaguardare una certa freschezza espressiva rispetto al progetto studiato sulla carta che, talvolta, quando è messo in pratica, rischia di perdere qualcosa, proprio perché troppo studiato e teorizzato a priori, senza tener conto delle dinamiche trovate sul campo. Realizza dei render o fotomontaggi dei progetti? In molti casi disegno dei progetti virtuali con photoshop sulle immagini dei luoghi, che rendono più chiaro sia cosa si vedrà con il buio, sia cosa si dovrà mettere in opera. “Catalizzatore di luce”, “Accumulatore di luce” sono i titoli delle sue opere: cosa intende? La fibra ottica a luce esterna cristallizza la luce in una forma fisica; la luce insieme all’ombra è l’unico elemento che ha proprietà visibili pur essendo immateriale. Questa cristallizzazione che invece cattura, ferma e imprigiona la luce dentro linee fisiche, proprietà della fibra ottica, diviene una sorta di “accumulatore” intorno allo spazio di una scultura o allo spazio stesso. Sono quindi interessato anche a creare dei contrasti tra il buio e queste forme di luce dalla mobilità percettiva, che essendo realmente statiche, bloccate in una fissità apparente vanno in contrasto con le strutture di acciaio inox delle sculture, determinando un sottile gioco di equilibrio. Nel 2002 è stato invitato da Gianni Canova a partecipare alla collettiva “Le città in/visibili” presso la Triennale di Milano. Ricordo che l’installazione era davvero avvolgente. Ha usato fibre ottiche e superfici elettroluminescenti. Ce ne parli... Il progetto “Spazi permeabili” per “Le città in/visibili” alla Triennale di Milano si basava su tre installazioni con fibre ottiche di diversi diametri ed una superficie elettroluminescente bianca a forma di triangolo scaleno di un millimetro di spessore, poste in relazione per trasformare percettivamente lo spazio ambientale. La superficie elettroluminescente triangolare tesa tra pareti e pavimento si poneva nell’installazione come una sorta di cuore, di “catalizzatore” o fonte di propagazione irradiante, in prossimità della quale si sviluppavano due installazioni con fibre sottili, mentre in alto dominava lo spazio un’installazione aerea con una fibra ottica grande. Una delle installazioni era dotata di un lento mutamento cromatico tanto da essere impercettibile, con colori di luce fredda partendo dal bianco, mentre le altre erano illuminate da luce fredda bianca in uno spazio rigorosamente bianco e oscurato. Il leggerissimo mutamento cromatico interattivo di una delle tre installazioni, veniva determinato da un sensore di presenza al passaggio delle persone. Ha mai pensato di usare altri mezzi di propagazione della luce? Certamente si, anche se poi nel linguaggio artistico dove si usano tecnologie si deve fare attenzione a non utilizzare mezzi inflazionati da altri. Le tecnologie vengono viste oltre che come linguaggio come un’idea; e quando si usa la stessa tecnologia di un altro artista anche se in modo diverso si rischia l’etichetta di epigoni. In realtà nel mio modo di operare non mi sono mai specializzato su una tipologia specifica di opera, ed ho sistematicamente spaziato tra installazioni ambientali, sculture-installazioni, sculture, light boxes, opere a parete, installazioni di luce interattive. Questo eclettismo espressivo, alla fine, resta anche per me meno prevedibile; spesso non so dove andrò a parare per risolvere i problemi posti da un progetto o da un altro. In queste difficoltà si trovano gli stimoli giusti che premono sull’innovazione dei propri mezzi. Tale è uno dei presupposti primi della sperimentazione. Questa domanda la pongo a tutti gli intervistati: il progetto più particolare che sta realizzando or ora? Ho appena terminato un’opera pubblica per l’Aeroporto di Brindisi, intitolata “Light Waves” con quattro prismi da cielo a terra nell’area check-in, basati su una struttura visiva in fibra ottica ed un rivestimento esterno di vetro stratificato e superfici olf, tali da rendere le linee di luce reali e al contempo illusorie. Quando ci si muove attorno alle sculture prismatiche a pianta pentagonale scalena, a seconda dei punti di vista, si può vedere bene l’opera in ogni sua parte, ma basta lo spostamento di pochi centimetri e tutto cambia, svanisce negandosi alla vista. A questa costruzione si somma poi l’effetto della percezione dinamica, implicita nel video e nel sonoro delle onde. L'intento è appunto quello di creare un campo dinamico di luce basato proprio sulla mobilità percettiva della luce stessa indotta nell’osservatore e sul mutamento delle coordinate prospettiche dello spazio architettonico. Essendo questo lavoro basato su un dialogo intorno alla luce tra mezzi espressivi tecnologici come le fibre ottiche, l'olf e la videoproiezione, ho pensato di cercare proprio l'ambiguità che in uno stesso spazio, simultaneamente, nasce se si sovrappone nella nostra immaginazione una configurazione del tempo immaginario rispetto a quella del tempo reale. È proprio questo concetto di tempo reale con il quale ci muoviamo all’interno dell’installazione che tende quindi a intercambiarsi con una sorta di tempo immaginario, indotto dal movimento e dal ritmo della luce dinamica presente nel video. Faccia un saluto ai lettori di Lighting Now! Ciao a tutti, ci vediamo sulla Light Wave! |
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