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Illuminazione dei dipinti PDF Stampa E-mail
Scritto da Piergiorgio Capparucci   

Secondo saggio di tre sulla luce nella pittura e per la pittura. 

Molto spesso, la grande maggioranza dei soprintendenti o dei direttori dei musei o i proprietari di gallerie d’arte, chiedono una buona e corretta illuminazione delle opere esposte. Naturalmente questa esigenza è più che legittima e nasce dalla consapevolezza di quanto sia importante la luce per l’osservazione e la contemplazione delle opere. Chi progetta l’illuminazione è, nella maggior parte dei casi, fortemente condizionato dalle normative sulla tutela e conservazione, cioè su tutti quei parametri conosciuti che potremmo definire di “tipo materiale” e che sono alla base della numerosa letteratura illuminotecnica in circolazione.

 

L’ illuminazione e la pittura


La risposta alla richiesta di una buona e corretta illuminazione di un dipinto, dipende da due concetti fondamentali che sono la quantità e la qualità erogabili di luce. Al primo possiamo, come già detto collegare il concetto di “tipo materiale” più legato ai problemi di conservazione dell’opera, al secondo possiamo collegare quello di “tipo culturale” che riguarda la “giusta” lettura del dipinto in relazione al linguaggio comunicativo scelto dall’autore.
In sostanza si vorrebbe che il “clima luminoso” , differisse quanto meno possibile da quello in cui sono stati concepiti i dipinti. Si evince da questa affermazione che l’aspetto di “tipo culturale” collegato alla qualità della luce, viene risolto in termini tecnici con la scelta della temperatura di colore delle lampade con indice di resa cromatico il più possibile vicino a 100 (il massimo valore possibile).

Teoricamente sarebbe però necessario un ulteriore passaggio metodologico, che consenta di avvicinarsi il più possibile al “clima luminoso” originario in cui sono stati realizzati i dipinti, perché come dice Pierre Rosemberg: “L’illuminazione non deve distorcere i colori dei dipinti, né falsificare le intenzioni dei loro creatori”.

 


L’illuminazione e gli artisti


Come possiamo sapere in che “clima luminoso” è stato concepito un dipinto? Un modo è quello di scoprire che tipo di illuminazione aveva ed oggi ha l’artista a disposizione nel suo posto di lavoro.


Ad esempio per dipingere murali o creare mosaici, l’artista usufruisce delle tradizionali aperture (finestre, lucernari, ecc.) degli edifici in cui opera.

Da questa semplice riflessione si deduce quanto sia fortemente condizionante la luce naturale, che differisce a seconda del luogo e dell’orientamento di tali aperture, dell’ora e delle condizioni atmosferiche. Tutti parametri su cui l’artista non può intervenire, fattori che lo costringono a subire determinate condizioni di quantità e qualità di luce.

Nel medioevo ad esempio, lo scriptorium dell’amanuense non era bene illuminato (così come concepiamo oggi l’illuminazione di un posto di lavoro), poiché le dimensioni delle finestre erano limitate e ridotte.

scriptorium medievale

 

acriptorium

Fu solo nel XV secolo che i pittori iniziarono a interessarsi alla luce, come elemento costitutivo dell’ambiente in cui creavano. Tiziano, Rubens, Rembrandt, Van Ostade, Velasquez, usufruivano nei loro studi di ampie aperture finestrate, più o meno grandi, tali da permettere quell’illuminazione vicina alla luce naturale esterna tanto raccomandata nei suoi scritti da Leonardo.

 Rembrandt

Vermeer: Milkmaid


Nella maggior parte delle opere dei maestri olandesi, la finestra è posta alla sinistra della composizione. La luce che entra da una singola finestra consente di evitare gli effetti di rappresentazione di una “luce naturale falsa”.
Esaminando un’opera, si può, a volte, risalire all’illuminazione scelta dall’artista. Per esempio, Tiziano nella sua “Venere”, presenta il personaggio sotto una notevole quantità di luce, così da far pensare ad un’ampia finestratura totalmente aperta.

Tiziano: Venere di Urbino

Mentre nei dipinti di Caravaggio i personaggi sono immersi nella semioscurità, frutto di personali scelte di manipolazione della luce naturale, con sistemi artificiali derivanti soprattutto dalla scelta di dipingere le pareti del suo studio di nero, con piccole finestre poste in basso da cui entrava la luce naturale.

 Caravaggio: la chiamata di San Matteo


Molto spesso lo studio dell’artista veniva concepito come un laboratorio appositamente attrezzato alle necessità della creazione, anche nei “sistemi” di ingresso della luce naturale. Alla fine del XVIII secolo, l’illuminazione zenitale era creata con soffitti invetriati, e nel XIX secolo si aggiungeva un’ampia finestratura verticale, solitamente alta due piani.

Però i pittori lavoravano anche “di notte” con la luce artificiale. Per esempio alcuni critici hanno suggerito che la “pallida luce” rappresentata sulle opere di Anne Louis Girodet , non sia altro che la luce artificiale di alcune lampade create per uso personale dall’artista.

Nel XV e ne XVI secolo, gli studi si affacciavano generalmente a sud o a sud-ovest, verso il sole, anche allo scopo di asciugare i dipinti, la caratteristica tonalità rosso-ruggine della pelle e quei tocchi dorati dei modelli Tiziano, sono dovuti, secondo alcuni critici, al fatto che il suo studio di Venezia era illuminato dai raggi del sole al tramonto. Anche alcune inequivocabili tonalità di luce rappresentate nei quadri di Jacques Louis David, scaturiscono dallo studio e dalla rappresentazione sulle opere di una luce nordica, più costante e priva di riflessi, relativamente fredda.

Un altro aspetto importante, da non sottovalutare, è la composizione della luce che illumina lo studio che può essere fortemente modificata dai riflessi diffusi sugli oggetti e sulle pareti. A tale proposito alcuni pittori di paesaggi lavoravano totalmente all’aperto, direttamente a contatto con il soggetto, mentre altri terminavano le loro opere in studio. E’ risaputo dai maggiori critici, ad esempio, che numerosi “paesaggi italiani” di Corot sono stati terminati dall’artista, in Francia.

 

Rembrandt


Per terminare, va ricordato come numerosi storici dell’arte hanno notato che le tonalità della luce sui quadri sono un “indizio” importante per capire le poetiche degli artisti, il significato profondo di quella “alta comunicazione” che è l’arte. Infatti, più che all’uso della luce fisica, il pittore è ricorso alla luce rappresentata, cioè alla finzione e all’artificio tecnico fatti diventare componenti linguistiche.
Cosa fare in concreto quando ci si avvicina al problema di illuminare un dipinto? Come possiamo integrare le conoscenze scientifiche e gli strumenti tecnici che abbiamo a disposizione oggi, con le esigenze culturali che questa operazione esige?

Un grande aiuto ci arriva da un’analisi approfondita della tavolozza cromatica che l’artista sceglie per realizzare il dipinto.

I colori sono creature della luce e la luce è la madre dei colori “ (J.Itten). Questa frase ha ispirato il prof. Francesco Bianchi nel suo: “L’Architettura della Luce” ed. Kappa 1991, ad una analisi dell’uso linguistico ed espressivo del colore-luce attraverso lo studio di opere appartenenti a diversi periodi e correnti artistiche.

Tuttavia prima di esporre questa interessante metodologia, occorre chiarire in termini tecnici e linguistici perché è necessario parlare del colore nei dipinti.
“Poiché nel linguaggio comune la parola colore viene spesso usata con due accezioni fondamentalmente diverse, riferita sia alla materia o sostanze cosiddette colorate che servono al pittore, sia allo stimolo prodotto da differenti lunghezze di onde luminose, è bene chiarire le differenze.

Per il pittore i tre colori di base sono il rosso, il giallo e il blu. Combinando dei pigmenti rosso e verde si ottiene un grigio scuro, combinando una luce rossa con una luce gialla; mescolando dei pigmenti blu e giallo si ottiene un verde, mentre se si tratta di luci si ottiene una luce vicino al bianco.
La spiegazione della diversità dei risultati venne fornita da Helmholtz nel 1855 con le sue leggi additive e sottrattive concernenti ripettivamente la composizione di luci e quella di pigmenti. Ogni pigmento determina il suo colore in quanto assorbe selettivamente alcune radiazioni della luce e ne riflette altre. Ciò che si mescola sono le sostanze, i colori invece vengono sottratti; i pigmenti si comportano cioè come dei filtri.” (F.Bianchi- L’Architettura della Luce- ed. Kappa 1991).

Georges de la Tour

Chiarito questo passaggio fondamentale, abbiamo la possibilità di analizzare la composizione dei colori di un dipinto, attraverso un esercizio di “scomposizione” dei contrasti e dei colori in relazione alla volontà espressiva dell’autore.
In sostanza è possibile analizzare la tavolozza cromatica di ciascuna opera, per arrivare alla dominante di colore o di colori che sono la base essenziale del “linguaggio luminoso” del dipinto.

Questo tipo di approccio, consente l’elaborazione di un “modello concettuale” di intervento indispensabile per chi si appresta ad illuminare un dipinto, costituisce un insostituibile supporto per una corretta fruizione dell’opera d’arte e permette di predisporre una illuminazione adeguata ed un allestimento opportuno.
In conclusione è utile sintetizzare alcuni concetti già espressi nell’articolo su “Luce e Beni Culturali” del sottoscritto, per meglio focalizzare l’argomento trattato:La luce da “inventare” per valorizzare e rendere fruibili le opere d’arte, è una luce di servizio alle qualità espressive ed intrinseche delle opere stesse.

Questo ambito applicativo della luce è più facilmente ascrivibile, nel complesso rapporto dialettico-espressivo della luce per i beni culturali (termine che fa riferimento alle tre grandi discipline del disegno: pittura, scultura, architettura).
Risulta pertanto essere assolutamente fondamentale il rapporto dialettico ed il lavoro in team, del disegnatore della luce, del museografo, del responsabile del museo o della mostra, dello storico-critico d’arte. I quali individueranno, prima ancora della soluzione tecnica, i criteri fondamentali e di metodo da cui nasceranno le basi per il progetto esecutivo.

In una sola parola individueranno il “modello concettuale” alla base delle scelte tecniche che seguiranno. La messa a punto di questo “modello” di intervento ha il solo scopo di definire, da un lato il sistema delle cose da rendere visibili, cioè “il cosa” illuminare, in funzione del significato e, dall’altro, il sistema della visione, cioè il “come” illuminare in funzione della costruzione narrativa.
In sintesi con il termine “modello concettuale” si indica il momento delle scelte interpretative per illuminare correttamente l’oggetto-soggetto, operando una sintesi delle conoscenze raccolte in sede di analisi.

E’ naturale che tutto questo avvenga senza dimenticare i vincoli di qualità e quantità di luce imposti dalle normative vigenti per la tutela e conservazione delle opere d’arte.

 

(si ringrazia per la collaborazone L'Accademia della Luce e il suo presidente Maurizio Gianandrea)

 

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