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La linea dell'ombra PDF Stampa E-mail
Scritto da Gloria Bianchino   

Nel 1883 a Milano la Scala e il Duomo sono illuminati, la luce è la elettrica. Parigi era stata illuminata a gas dal 1825, mentre la luce pubblica elettrica data al 1881, e anche in questo caso le luci puntavano sui monumenti, su Notre Dame o sull’Opera, sul Louvre oppure sull’Assemblea Nazionale, anche il Pont Neuf e diversi luoghi deputati. Non ancora Place des Vosges ma certo il Palais Royal e la Commedie Française.

Le luci, in sostanza, da subito una gerarchia dentro la città, stabiliscono che cosa è importante e che cosa meno. In seguito, dopo Haussmann, progressivamente le luci si distendono nei grandi viali dello sfondamento della città antica voluto dal governo dopo la Comune, ma fuori di questo sistema tutto il resto, a Parigi come a Milano, o a Torino resta al buio. Le luci dunque recuperano una città simbolica, scelgono quegli stessi monumenti che le incisioni, i dipinti, le fotografie hanno da ultimo riproposto e lasciano ai margini, eliminano, chiudendola, nell’ombra il resto della città. Anche nelle incisioni importantissime di Gustave Doré, London. A Pilgrimage (1873) si comprende il senso della nuova città, si comprende che cosa era la Londra degli anni ’70 senza illuminazione fissa, vicoli sterrati, pozzanghere, gente nel fango, e poi carrozze e vetturini con la lampada per illuminare, malamente, le strade. Nel valutare questo momento iniziale della luce della città, anche in relazione alle trasformazioni che proprio questo genere di illuminazione progressivamente impone, c’è un passaggio importante, quello fra la diffusione dei lampioni a gas, con tanto di addetto che ogni sera li accende e al mattino all’alba li spegne, e la diffusione della illuminazione elettrica, che segna un momento davvero importante che coincide anche con una maggiore diffusione della luce, anche se sempre limitata ad alcune zone chiave, ad alcune zone fortemente simboliche del centro urbano. Vorrei a questo punto fare un passo indietro e osservare la città non dal centro ma dall’esterno, dalla periferia.

Parigi, oppure Milano, o Torino oppure tante altre città dell’Europa non hanno di notte alcun limite, quel segno forte delle mura che aveva distinto le città dal territorio è stato, in troppi casi, abbattuto, e dunque nulla permette di distinguere di giorno la città antica da quella periferia che si insedia sui vecchi terrapieni delle mura abbattute e va anche oltre, seguendo i flussi dei contadini che vengono a vivere nella metropoli, magari nei quartieri operai che stanno sempre, con le fabbriche, in periferia. Di notte il contrasto fra campagna e città, già debole di giorno, scompare del tutto, i quartieri periferici, il confine della città, scompare e appunto resta una ideale linea dell’ombra che distrugge una delle caratteristiche determinanti dell’immagine urbana, la sua forma. La città che aveva una forma che a volte era racchiusa entro un sistema di strutture fortemente connotato, quella città adesso diventa come una macchia che si estende indefinitamente e che concresce su se stessa senza ordine. Infatti, in genere i provvedimenti di normativa urbanistica non tengono conto degli abitati ma semmai vincolano la concentrazione funzionale di alcune fabbriche, per cui le periferie delle città diventano luogo di scambio fra spazi del lavoro e dormitori dei lavoratori stessi che non riconoscono dunque alcune differenze fra gli ultimi campi che finiscono sotto le loro case e quel centro della città che è sempre più distante.

L’idea che il centro della città sia lontano dalla periferia è segnata appunto dalla luce, dalla distribuzione della luce, e il problema delle luci deve essere considerato a questo punto in modo più preciso. Oltre ai monumenti le luci sono indispensabili per i Grandi Magazzini, e del resto Émile Zola in Il Paradiso delle signore lo aveva capito molto bene raccontando con durezza e tensione emotiva la vita delle commesse costrette a stare dentro il Magazzino, viverci, facendo orari terribili e distruttivi. Ma il problema dei Grandi Magazzini sono ancora una volta le luci: illuminare i magazzini a gas all’esterno è possibile, semmai il problema è l’interno, il voler proporre una vita notturna in questo caso, come anche in quello dei teatri e dei cafè chantant. La leggenda ma anche le cronache parlano della Ville Lumière, e di luci sono tessuti un poco tutti i luoghi del divertimento, luci a gas, luci ad acetilene per il proscenio di tanti teatri, infine luci elettriche. Quindi la grande città del piacere usa la luce come simbolo, di notte è come di giorno, di notte si vive come di giorno e in tutti i ristoranti la lampada ad olio sta sui tavoli e la gente sposta in avanti, la borghesia naturalmente, il tempo della veglia e quello del loisir. Ma se questo è vero per Parigi, o per Berlino, o ancora per Londra, per Milano o Torino di notte, serve ragionare sulla città e la sua immagine di giorno. Atget con le sue foto documenta dunque a Parigi le strade di periferia, i luoghi non deputati, i vicoli sui quali affacciano le vetrine e documenta questi spazi di giorno, quasi sempre deserti, quasi sempre strade vuote, sospese in una dimensione che poi la critica ha riconosciuto quasi fuori del tempo1. Atget analizza le vetrine dei negozi e le riprende una per una, con dentro gli accessori, con dentro tutto quello che la grande città offre alla specializzazione della domanda, diciamo strumenti per lavorare il legno o il ferro, busti oppure tessuti, guepierres e cappelli, e questa antologia dei possibili acquisti appare proporre come un possibile catalogo delle scelte e quindi una lettura della dialettica fra acquirenti e venditori sempre più specializzata. I piccoli negozi nelle strade di periferia, i grandi magazzini e i negozi lussuosi in centro, sopra tutto sui boulevards, ecco un’altra contraddizione. I negozi ripresi da Atget di luci non ne hanno, o meglio, agli inizi non ne hanno, sono negozi per acquisti durante il giorno, sono negozi che a sera scompaiono entro le pareti entro i muri delle strade e sono destinati a restare così fino al mattino dopo quando il sole o la penombra rischiareranno quelle vetrine, quegli occhi trasparenti su strade non molto trafficate. Così fra centro e periferia emerge chiarissima un’altra contraddizione, luci nei negozi e negozi senza luci, vita di sera e di notte al centro della città, abbandono e silenzio nelle periferie. Appare esserci un limite fra questi spazi, e un limite preciso. In certe città, Parigi e Londra e Berlino e in parte Milano questo limite si individua subito, in alcuni casi lo spazio delle luci, come ad esempio a Parigi, è enorme, più limitato a Londra e sopra tutto a Milano. A livello di fruizione della città e di dialogo fra le diverse classi sociali questo contrasto fra le luci, questa netta distinzione fra gli spazi assume un significato preciso. Ovviamente una dissociazione dentro il tessuto stesso del sistema sociale, ma anche una scansione temporale delle esistenze che è molto diversa. Le luci dalla fine del XIX secolo hanno quindi segnato la storia della città e le sue fratture di classe e hanno inventato anche un sistema simbolico che nel corso del XX secolo si è completamente trasformato. Le luci delle città hanno quindi una storia e anche se in breve conviene cercare di raccontarla, magari saltando qualche tappa visto lo spazio a disposizione.

Tutti ricordiamo che cosa ha trasformato il colore delle luci per i monumenti, tutti ricordiamo come a un certo punto fin dagli anni ’50 sono state sostituite le luci bianche dalle luci gialline, sono quelle dei monumenti dentro ma anche fuori delle città, diciamo i castelli della Loira o quelli sul Reno, diciamo i monumenti romani del sud della Francia piuttosto che quelli di Berlino, e il fenomeno progressivamente si è esteso a tutti gli stati dell’occidente per proseguire poi, lo sappiamo, anche oltre il mare Mediterraneo, ad esempio in Egitto e poi un poco ovunque, diventando spettacolo, diventando son et lumière, come sappiamo. La trasformazione non è casuale essa indica un progetto, una volontà, quella di stabilire un colore simbolico, il giallo carico per Parma ad esempio, come segnale per individuare i monumenti, e quindi ancora una volta distinguerli nel contesto della città. La quale nel frattempo, fra le due guerre e ancora di più nel secondo dopoguerra, si è completamente trasformata. Le luci elettriche, le filiere delle lampade sospese o dei lampioni stradali si sono enormemente dilatate, adesso non è più possibile distinguere dalla illuminazione pubblica il centro più ricco e borghese dalle periferie, le luci ci sono ovunque, pur con molte differenze. Infatti, quella linea d’ombra che un tempo segnava il bordo delle città industriali e operaie con dentro gli insediamenti della borghesia è in parte cambiato ma restano comunque evidenti differenze.

Le vetrine delle periferie e quelle del centro sono un utile punto di confronto: ormai la luce elettrica c’è ovunque; le vetrine disperse nelle periferie hanno una illuminazione funzionale a mettere in evidenza gli oggetti ma non certo a proporre questi come simboli, a questo pensano le vetrine del centro che restano accese anche di notte, a volte tutta la notte, e mostrano abiti e simboli della moda, oppure itinerari di viaggio delle grandi agenzie oppure mostrano semplicemente il potere della luce e della architettura, perché adesso nei centri delle grandi città a parte i monumenti antichi si sono insediate le banche e quindi la città ha acquisito un polo direzionale troppe volte interno e non esterno, con capovolgimento ancora una volta dei rapporti fra luoghi di abitazione e luoghi di lavoro. Il modello è quello delle città statunitensi ma progressivamente si introduce ovunque e ancora una volta si serve della luce per distinguere la dimensione degli spazi e per dare una indicazione precisa di lettura a coloro che questi spazi ancora non conoscono.

A questo punto si deve dire che la città propone un altro genere di lettura, non più orizzontale ma verticale. La città che per secoli è stata una città grande come la densità dei suoi distesi insediamenti e dalla quale emergano, grandi ombre poi tenuemente illuminate i monumenti, le cattedrali, i teatri, i palazzi del potere, la città adesso subisce un altro genere di intervento, viene ripensata, pur con limiti imposti da norme urbanistiche spesso dure, altre volte meno cogenti, e mostra grandi diedri, brandi strutture spesso fuori scala, che sono una imitazione dei grattacieli di Manhattan ma ripensata in termini diversi, non come canyon di una griglia senza fine, ma come poli di riferimento e di attenzione per una geografia completamente legata al mercato2. Le luci che dal centro alla periferia delle città storiche si modulava morbidamente, di colpo, in questi grandi edifici, viene proposta fuori scala, sia come intensità che come dimensione narrativa e si impone come uno spazio e una architettura diversa della stessa città. L’ idea che le città di notte, le nostre città, siano ormai molto diverse da quelle di giorno è chiara a tutti, basta percorrere di giorno lo spazio urbano per vedere come di fatto tutti gli edifici rientrino in una programmata ed equilibrata distruzione di strutture, ma di notte tutto questo cambia. Mentre i percorsi delle strade illuminate mantengono i propri ritmi e le proprie caratteristiche sulle quali ho insistito in precedenza, mentre le cattedrali e gli altri edifici simbolici godono magari di quella illuminazione giallastra che li individua appunto come luoghi del passato da non trascurare o dimenticare, di colpo su questo sistema incombe un altro genere di lue, un altro genere di architettura, e il centro che era un sistema omogeneo viene come penetrato da grandi torri, da grandi strutture segnaletiche funzionali ad esporre se stesse e soltanto se stesse.
Proviamo, ora, a percorrere le nostre città, questa volta non le città che vediamo ma quelle che i pittori hanno dipinto, per capire quanto la luce abbia voluto dire a livello di mitologia, a livello di sistema simbolico. E comincerei proprio col futurismo, e con Boccioni ancora divisionista ne
La città che sale (1910-11), e in Rissa in Galleria (1910), o ancora a Carrà in Notturno a Piazza Beccaria (1910), a Balla e alla sua mitologia molto jugend della lampada elettrica in Lampada ad arco (1909). Ebbene tutto questo ci fa capire come il sogno del progresso nell’Italia fra primo e secondo decennio del ‘900, la città che cresce, la città come struttura e insieme dimensione del vivere il progresso punti sulla luce some sistema simbolico,e naturalmente punti sul ferro e sul movimento. La città del progresso, la città che nasce e cresce su se stessa contro la città ferma, buia, piatta, abbandonata ai ricordi. Ecco la luce e il suo senso, luce elettrica si badi, nel dipingere dei futuristi. Ma mentre questi colgono della città lo spazio del progresso altri due grandi protagonisti della ricerca pittorica raccontano una storia diversa. Penso a Giorgio de Chirico che, nelle sue immagini sospese fuori del tempo, nella sua Torino coi monumenti poggiati al suolo, nella sua Ferrara dove si scompone persino il castello su un palcoscenico, suggerisce della città una dimensione diversa, senza limiti, una città vuota di eventi e di persone, una città che sarà riproposta anche dalla pittura dei surrealisti, a cominciare da Magritte. Ebbene, De Chirico dipinge la città del vuoto di eventi, è la Torino di Nietzsche, è il sogno di luoghi dove affiorano, misteriosamente, i miti della antica Grecia oppure gli orologi bloccati sulle torri o i treni che passano improbabili all’orizzonte.

C’è un altro protagonista che ha colto il senso della città e della crisi della città ed è Mario Sironi che sceglie l’opaco delle periferie, il denso cilindro dei gasometri, il ritaglio delle ciminiere contro il cielo per raccontarci una città diversa, una città che non ha luci se non lontane, tenui, che non ha colori se non quelli della terra, una città ancora una volta deserta di pubblico e di eventi; Sironi scopre insomma la periferia e dipinge quella come il solo luogo del silenzio, della meditazione, della lunga durata. Il racconto delle città e l’immagine della città nella pittura italiana non chiude certo con Sironi, e lasciamo da parte la città di Die Brücke trasferitosi da Dresda a Berlino o quella di Otto Dix e degli altri espressionisti tedeschi, e prosegue con un pittore Mario Mafai che ancora una volta ha saputo cogliere la realtà della città, la realtà della Roma bombardata durante il secondo conflitto mondiale. La serie delle sue distruzioni, dipinti di non grande formato dove le rovine sono come colanti ammassi di cere biancastre, di rosa spenti, di bruni scavati da pennellate dense, racconta una volta ancora la storia della città, della sua Roma, ma una storia senza monumenti, una storia ai brodi, ai margini, una storia per giunta che è sempre storia di giorno, sempre racconto costruito con sguardo largo e commosso di fronte alla realtà di una città ormai ferita. Un’altra immagine della città era stata dipinta da Scipione, una città notturna, corrusca, popolata di prostitute e di ombre ambigue, una città onirica, sempre Roma certo, ma incombente, ossessiva.

La pittura dunque ha raccontato una storia della città non diversa, in Italia ma anche in Germania, da quella che le luci del palcoscenico, limelights proponevano in Francia da Degas in poi; il palcoscenico della città sono le strutture interne, quelle esaltate dalle luci prima a gas e poi elettriche oppure sono le periferie che segnano il limite sottile, a volte impercettibile fra la penombra e l’ombra. La storia delle luci delle nostre città è anche la storia della consapevolezza di coloro che le vivono, è un sistema simbolico che va riconsiderato integrando insieme vicende tecniche e storia della pittura, storia della fotografia e storia dell’arredo urbano, ed ancora manifesti3. Il colore della città quindi potrebbe essere il tema per proseguire questo delle luci e delle penombre, ed ancora una volta il colore sarà quello del centro borghese del sistema urbano e la penombra resterà quella delle polverose, bloccate periferie dipinte da Mario Sironi.

 

(Tratto da F. Zanella, Città e luce. Rappresentazione e progetto, in Città e luce. Fenomenologia del paesaggio illuminato, pubblicato in occasione della mostra, Reggio Emilia, 18 ottobre – 8 novembre 2008, Festival dell’Architettura, 4, Parma, Festival dell’Architettura Edizioni 2008, pp. 86-89).

 

 

1 Sulla Parigi fotografata da Atget tra il 1898 ed il 1900 si vedano i recenti contributi, Atget Paris, présentation de L. Beaumont-Maillet, Paris 1992, inoltre J-C. Lemagny, Atget le pionnier, Paris 2000.

2 Si vedano, tra gli altri, L. Mumford, La cultura delle città, Milano 1954, nuova ed. Milano 1999; P. Sica, L’immagine della città da Sparta a Las Vegas, Bari 1970; L. Benevolo, Storia della città, Roma-Bari 1975.

3 Si veda A. C. Quintavalle, Manifesti. Storie da incollare, Milano 1996.

 

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