Intervista a Guido Levi
Scritto da Francesca Calani   

Guido LeviGuido Levi è un Lighting Designer che probabilmente non ha bisogno di presentazioni: basti solo dire che è stato introdotto alla platea da Maurizio Gianandrea, presidente de “L’Accademia della Luce”, come “uno dei migliori Lighting Designer che esistono oggi in Europa”. Per i pochi che ancora non lo conoscessero, Guido Levi ha realizzato luci per la danza, la musica, la lirica, il teatro, collaborando con artisti come Luca Ronconi, Daniele Abbado, Zubin Metha, con Cooperative come “Nuova Scena” di Dario Fo e anche col “Cantiere” di Montepulciano. Ha lavorato anche per l’illuminazione architetturale e per la pittura, un esempio tra tutti, su commissione della Soprintendenza alle Belle Arti di Roma, ha realizzato una nuova illuminazione dei quadri di Caravaggio nella Cappella Cerasi appena restaurata. Abbiamo incontrato il grande Lighting Designer al termine del suo intervento (a “Insegnare a illuminare” a Montepulciano nel 2007 – ndr) e gli abbiamo posto alcune domande sulla situazione attuale della figura professionale del Lighting Designer, per cercare di focalizzare il suo punto di vista, approfittando della sua esperienza eclettica e internazionale.

 

 “Insegnare a illuminare” è il titolo di una serie di seminari di studio gratuiti, ad altissimo livello con relatori d’eccezione, che “L’Accademia della Luce” ha organizzato dal gennaio 2007, per affrontare singolarmente le molteplici applicazioni dell’arte di illuminare. Guido Levi è intervenuto per curare il tema “la luce e il teatro”.

Accademia della Luce

 

Francesca Calani: Come definirebbe la sua professione?

Guido Levi: Non lo ritengo un mestiere: è un grande gioco, un grande regalo della vita, ma allo stesso tempo è una responsabilità enorme, che oggi non so bene come portare avanti. La luce è la fonte della vita, è la nostra energia vitale, se si spegne la luce sparisce tutto: sentimenti, emozioni. La luce è uno dei tanti mezzi di comunicazione, di espressione, che traducono lo spettacolo, la musica o la danza, in un dialogo che si instaura attraverso un palcoscenico o uno spazio aperto, direttamente col pubblico, con la gente: è comunicare dei messaggi. Quindi prima ancora di affrontare il palcoscenico, bisognerebbe vivere questa luce, recuperando quella che è la nostra essenza. Anni fa avevo cercato di essere un po’ più professionale e quindi studiavo i testi, ascoltavo musica, e così via, ma mi sono trovato male, non aveva funzionato, perché tutto ciò mi creava una mia idea preconcetta. Invece osservare con attenzione la luce in cui viviamo tutti i giorni, genera in me una capacità di ascolto, una voglia di incontrare, imparare, conoscere, che è il solo motivo per cui riesco a fare bene ciò che faccio e per esempio anche a far contento un regista.

 

Quindi secondo lei è impossibile definire senza approssimazione il “Lighting Designer”?

Esatto, anche se spesso mi diverto a tradurlo come “lucifero”, cioè colui che porta il fuoco, l’energia, la luce sul palcoscenico, in realtà “Lighting Designer” per me non significa assolutamente niente, così come non mi interessa il curriculum, perché, oltre al fatto che potrebbero esserci scritte mezze verità, non vengono mai menzionate le cose che secondo me sono di gran lunga più importanti. Mi riferisco per esempio agli incontri tra diverse culture, agli impegni per i quali anche Barenboim, Zubin Mehta o Claudio Abbado si sono battuti, agli impegni avuti nei vari paesi, come ad esempio Israele, dove non si potevano fare spettacoli. Purtroppo mi rendo conto che oggi è più difficile, ma c’è stato un lungo periodo in cui io spendevo la metà di quanto guadagnavo per questi impegni, grazie ai quali ho incontrato degli “occhi”, la vita, ricevendone un’energia tale che mi ha riempito, un’energia che purtroppo oggi il palcoscenico non dà più. C’è una luce che va assolutamente riscoperta e nutrita ed è quella che è in noi e che ormai da tempo si è affievolita.

Norma - Sferisterio di Macerata - 2001

Quali sono gli ambiti progettuali di competenza di un Lighting Designer, dato che lei stesso si è occupato di teatro, opera lirica, ma anche di luce architetturale e di pittura?

Io non ho mai diviso i campi, non ho mai separato le cose, insomma sono state le situazioni, gli incontri che mi hanno portato, strada facendo, verso il teatro oppure la pittura. La luce che ho vissuto per 14-15 anni in Africa, grazie a mio padre, i fuochi, accompagnati dal suono come di battaglia dei tam-tam, che venivano accesi tutte le sere per allontanare gli animali, tutto questo mi è rimasto veramente dentro. La mia vita è stata semplicissima con gli africani, tanto quanto è stata difficile con gli europei, a tal punto che ho dovuto lottare quando sono arrivato in Europa. Ogni settimana ero dallo psicologo, ma mi sono sforzato di dimostrare di essere qualcuno, di sapere, di discutere ed è stata una scuola di vita. La fortuna mi ha fatto un grande regalo, perché amando viaggiare, senza mai fare un esame, ho avuto la patente C per guidare dei grossi camion e proprio in uno di questi viaggi è avvenuto il mio primo incontro occasionale con il teatro. Ancora oggi, affrontare uno spettacolo, per me è sempre difficilissimo, ogni volta come fosse la prima, ogni volta è un’avventura e quando si parte per un’avventura, bisognerebbe tutti quanti seguirla e ascoltare tutto e tutti, per cercare poi di tradurre ciò che abbiamo interiorizzato, ciò che abbiamo vissuto.

 

Quale percorso formativo consiglierebbe ad un aspirante Lighting Designer?

Questa è una discussione aperta. Come si può fare per aiutare questi giovani… è infatti una grossa preoccupazione. Se vogliamo fare luci, bisogna riuscire in qualche modo a coinvolgere e a ritornare all’interdisciplinarietà, alla collaborazione e allo sperimentalismo, come si faceva una volta nel Cantiere o nelle Cooperative. Io ringrazio ancora oggi quella educazione, quella cultura, che bisognerebbe assolutamente recuperare. Montepulciano per tutti noi è stato il Cantiere, una scuola straordinaria e indimenticabile, perché c’era un ambiente, delle persone senza divismo né titoli, ma solo persone, e abbiamo imparato a vivere insieme e costruire momenti, con una collaborazione tale che ci ha fatto veramente crescere tutti.

Ai nostri tempi era più facile, perché c’era un incredibile entusiasmo e c’erano meno necessità, si viveva con meno cose, mentre oggi la vita costa un patrimonio e anche i giovani che studiano non trovano spazi, né opportunità. Oggi non c’è il tempo di fare le cose insieme, perché ti chiedono la pianta, dopo che il regista ti ha istruito banalmente sulle posizioni degli attori sul palcoscenico, mentre invece bisognerebbe saper guardare, ascoltare, tradurre e proporre in corso d’opera, per creare discussioni, sperimentare, perché le luci si fanno tutti assieme.

 

Cosa si può fare affinché venga riconosciuta anche in Italia la figura professionale del Lighting Designer?

Questo è un problema delicato e bisogna stare molto attenti ad affrontarlo nel modo giusto. Credo che prima dei riconoscimenti personali o professionali come categoria, occorra affrontare questa professione, se è una professione, e farla crescere e maturare, perché spesso non è rispettata anche perché noi stessi non siamo capaci di farci rispettare, non siamo capaci di fare il Lighting Designer: si tratta di costruire dei rapporti veri con i tecnici, col regista e con chi lavora con te, e di farsi sentire con la direzione artistica e con chi decide, per non arrivare ad una formalizzazione della figura professionale come quella che per esempio esiste oggi in America. In America c’è un altro tipo di progettualità, il Lighting Designer lavora a casa e non è nemmeno obbligato ad andare sul palcoscenico. A me è capitato ad esempio di rifiutare dei lavori, perché non mi era permesso, cosa assurda, salire sul palcoscenico in quanto non venivo assicurato, dato che non era prevista la mia presenza in teatro. Inoltre, per quanto mi riguarda, non mi interessano i riconoscimenti personali, né mi interessa la critica, anzi mi disturba che si scriva del mio lavoro e di me, perché, scrivendo spesso senza cognizione di causa, hanno creato un personaggio in cui non mi riconosco. Addirittura fino a 10 anni fa facevo in modo che non comparisse sulla locandina il mio nome e cognome, poi ovviamente ho dovuto cedere, perché non era corretto nei confronti del mio lato tecnico e delle persone che con me avevano collaborato e vissuto in quegli spettacoli. Insomma, mi interessano i rapporti, mi interessa di più il rispetto per la persona che non il rispetto per la professionalità.

Norma - Sferisterio di Macerata - 2001

In Europa c’è una sensibilità molto più matura nei confronti delle professionalità che lavorano in ambito teatrale, rispetto all’Italia. Come mai?

Non lo so, anche perché l’Italia è un paese straordinario dove c’è tanta storia, tanta cultura. Non a caso è il paese in cui ho scelto di vivere, è un paese che ti tiene compagnia. In particolare ho scelto Roma, dove non ci si sente mai soli, dove ormai vivo da 20 anni, ma mi sembra sempre la prima volta che guardo quella chiesa, quella colonna, quella piazza... ne rimango incantato: questo sentimento dovrebbe appartenere a tutti e invece incredibilmente non è così. Non capisco.

In Europa c’è molta più sensibilità. In Francia, per esempio, qualche anno fa il festival di Aix-en-Provence è stato completamente bloccato da uno sciopero dei giovani del teatro di strada, perché vorrebbero fare teatro ma non riescono a farlo. Il teatro si sta cancellando, sta perdendo la sua identità per diventare cinema, televisione. Sono sempre più protagonisti i personaggi, le celebrità e invece bisognerebbe rivivere la nostra energia, ritrovare la sincerità della luce senza ricercare un effetto fine a se stesso e abbandonare riconoscimenti personali, divismo e megalomania. Bisogna assolutamente abbandonare questo mondo astratto, per tornare a partecipare alla vita quotidiana, ascoltando tutto quello che avviene fuori, nei mercati, nelle piazze; perché in realtà il teatro è lo specchio della società.

(si ringrazia per la collaborazone L'Accademia della Luce e il suo presidente Maurizio Gianandrea)